Scuola digitale e scuola tout court

 Aurelio Di Matteo

Dopo l’emanazione del Decreto con il quale si prevede che a partire dal 2014 le scuole adottino libri digitali o al massimo un sistema misto è iniziato subito il consueto e quasi sempre inconcludente dibattitto, centrato sulla solita contrapposizione acritica dei sostenitori del sì e del no. Tra i tanti anche un prestigioso quotidiano nazionale che ha scomodato due illustri intellettuali e ricercatori, il filosofo Giovanni Reale e Francesco Antinucci, direttore dell’Istituto di scienze e tecnologie cognitive del Cnr. Lasciamo da parte la considerazione realistica che si tratterebbe, come per il passato, di un’innovazione gattopardesca per lasciare le cose come sono. Non si spiegherebbe, diversamente, la prevista deroga che consente di adottare i testi cartacei in uso e di continuare con l’attuale prassi didattica. Siamo così alle solite: cambiamenti di facciata ai quali assistiamo da decenni senza che si modifichi qualcosa, nonostante le strombazzate “riforme” messe in campo – si fa per dire! – dal ministro di turno, sia di destra sia di sinistra. Intanto le cifre e i monitoraggi ci offrono una scuola a pezzi, anzi quasi inesistente. Proprio la contrapposizione dei due intellettuali citati ci dà la certezza dell’inguaribile vizio dell’italica predisposizione a discutere sul sesso degli angeli senza confrontarsi con la reale evoluzione degli stili di vita, dei concreti rapporti umani e soprattutto degli strumenti che il progresso tecnologico ha dato all’uso dell’uomo fin dalla nascita, particolarmente nel campo della comunicazione e dell’informazione. La domanda di fondo, alla quale dare una risposta concreta e produttiva, dovrebbe essere la seguente. Nella scuola d’oggi e ancor più di domani, nella Comunità virtuale nella quale i giovani, ma anche gli adulti, vivono, è ancora utile la mediazione didattica e culturale del libro di testo? È esso utile in tutte le discipline? Non è forse rimasto obsoleto e improduttivo strumento per docenti pigri e ripetitivi, pedissequamente obbedienti a una successione di temi e di attività standardizzati e preconfezionati?  Sono trascorsi dieci anni – 11 giugno 2003 – da quando il quotidiano salernitano Cronache del Mezzogiorno ospitò cortesemente un mio intervento dal titolo “Una scuola senza libri”, che a conclusione del rituale iter primaverile della scelta dei libri di testo ne sottolineava la senescenza, ritenendo che nella scuola odierna i libri di testo in formato cartaceo dovrebbero essere sostituiti da un computer individuale per le urgenze proprie di una didattica nuova. Allora non c’erano ancora i tablet! Ho lasciato da quattro anni la mia attività di dirigente scolastico, ma nella scuola è cambiato ben poco, nonostante le migliaia di euro elargiti e consumati – meglio dire sperperati – attrarverso i tanti variegati progetti PON. I dati che ci offrono i monitoraggi delle Organizzazioni internazionali sono duri da digerire. Per quanto riguarda il numero di aule attrezzate per una didattica multimediale, tra i Paesi dell’area occidentale abbiamo dietro di noi soltanto la Grecia e la Romania. La media OCSE registra un 37% di aule dotate di strumentazioni informaticche a fronte di un modestissimo 6% dell’Italia! Il Regno Unito nel precedente anno aveva raggiunto l’80%. Soltanto un pregiudizio da senescenza culturale può ritenere che nell’era di Internet abbia ancora valore e funzione didattica il libro di testo, già bello e confezionato con la suddivisione e l’elargizione delle nozioni ripartite per discipline. E perché quelle nozioni e non altre? E perché quei contenuti di sapere e non altri? Se una scelta di nozioni, strutturate e gerarchizzate all’interno di discipline e materie ben distinte, poteva aver senso pedagogico quando, quasi sempre, l’unica fonte di conoscenze per lo studente erano la scuola e il libro di testo, oggi la stessa appare del tutto anacronistica, insensata ed inutile di fronte ad un clik che apre orizzonti e masse di nozioni sterminate. La scuola che verrà sarà una scuola senza quei libri, nei quali per decenni è stato cristallizzato e imbalsamato un sapere a compartimenti stagni; sarà una scuola nella quale il sapere è quello da cercare, ordinare e costruire intorno ad un problema o un’attività e non quello già pronto e chiuso in se stesso, tipico dei sussidiari e dei libri di testo. Il nuovo che ci apprestiamo a vivere è quello di una scuola non più concepita e caratterizzata dalla cultura scritta e stampata, ma inondata dalla mediazione e dalle logiche audiovisuali, multimediali e digitali. La nuova scuola sarà, dunque, una scuola senza libri. E sarà produttiva di risultati se l’universo dei media sarà visto non soltanto come una risorsa utile per meglio comunicare e trasmettere il sapere, ma come l’ambiente naturale nel quale docente, alunno e famiglia ripensano al proprio ruolo e co-apprendono costruendo se stessi e il proprio sapere. Ci si dimentica che il tradizionale “libro scolastico” rappresenta un modo di apprendere fondato sulla conoscenza confezionata dall’esterno e predisposta in pillole da assorbire con un processo standardizzato e preventivamente programmato. La conoscenza che porta a un apprendimento attivo e creativo è, invece, quello costruito autonomamente attraverso la sperimentazione, la ricerca, la scoperta e la conseguente razionale strutturazione personalizzata. La cultura acquisita, organizzata e costruita attraverso la didattica multimediale è la possibilità offerta finalmente a tutti gli alunni per individualizzare l’insegnamento e personalizzare la formazione, per realizzare una concreta “scuola su misura” e un apprendimento “attivo”. Altrove sono già iniziate e diffuse le sperimentazioni di scuole senza libri, come a Tucson in Arizona, dove – ormai è un decennio! – nell’Empire High School ad ogni studente fu fornito un computer portatile, dotato di scheda wireless sia per navigare in Internet sia per ricevere attraverso la rete locale tutto il materiale necessario. Anche i docenti fanno a meno dei libri, perdendo l’abitudine di seguire in modo ripetitivo i libri di testo. Insieme al computer le aule e i laboratori sono stati dotati di “smart board” (lavagna elettronica) che, sostituendo gli obsoleti proiettori, permette ai docenti di fare lezioni muldimediali e agli alunni di collegarsi ad essa con un semplice clik sul computer. Per ironia della sorte, l’era del digitale e del virtuale sta dando ragione al Socrate platonico, secondo cui il vero filosofare è quello che si fa oralmente. Ad avviso di Platone, Socrate non lasciò nulla di scritto perché riteneva che i testi scritti, se interrogati, tacciono maestosamente; mentre sono il confronto, la ricerca ed il dialogo che stimolano la domanda filosofica. Dopo Tucson numerose altre scuole, e non solo negli Stati Uniti, stanno abbandonando l’universo gutenberghiano. Il più grosso editore londinese, Paerson, primo nel mondo per la pubblicazione di testi scolastici, stipulò con lo Stato della California un consistente contratto per dotare tutte le scuole di libri in formato digitale e di un software, consentendo in tal modo ai docenti di preparare lezioni su misura per ogni alunno. Il programma si è progressivamente esteso agli altri Stati. Qualcuno potrà obiettare sui costi per un’operazione del genere. Nulla di più errato. Di certo si risparmierebbe e di molto. Oggi, in cinque anni di liceo, una famiglia spende in libri di testo mediamente non meno di 4000/5000 euro, mentre un buon portatile, la cui vita media è proprio di cinque anni, ne costerebbe circa 500/700. D’altra parte un tablet è alla portata economica di una famiglia media e un e-book costa quanto un’ora di parcheggio in Piazza della Concordia. Il problema è solo culturale e politico, accresciuto dalla difesa di privilegi di imprenditori conservatori e di operatori scolastici pigri. Purtroppo questi sono i problemi e le resistenze più difficili da risolvere, fino a quando avremo filosofi, intellettuali, editori, dirigenti e docenti che propugnano meno inglese e meno informatica, come se ne avessimo di troppo. E quello che è peggio, nel frattempo con meno inglese e meno informatica ci si dimentica anche dell’italiano e delle buone letture.