Totò, Giorgio e la Consulta

Angelo Cennamo

Quando Totò Ingroia, nel lontano Guatemala, avrà letto il dispositivo della sentenza che ha deciso il conflitto di attribuzione sollevato dal capo dello Stato contro la sua ex Procura, sarà rimasto sicuramente impassibile come solo i siciliani sanno fare di fronte a certi eventi, giudicati più o meno ineluttabili. “E’ una sentenza politica” ha commentato l’allievo di Borsellino, intervistato dal Corriere della Sera. E se lo dice lui, che della fede politica ne ha fatto una bandiera. Certo e’ che il provvedimento, alquanto delicato per la materia trattata ( accordo Stato-mafia) e per i soggetti implicati ( la Procura della Repubblica di Palermo, da una parte, e il Quirinale, dall’altra) è stato reso senza nessun intoppo e con una singolare unanimità di giudizio. Per farla breve, la Consulta ha dato ragione a Re Giorgio : le intercettazioni delle sue conversazioni telefoniche con Nicola Mancino – sul cui contenuto i magistrati palermitani si erano inspiegabilmente già pronunciati sostenendo la totale irrilevanza delle stesse rispetto alle indagini – andavano immediatamente distrutte, anzi neppure ascoltate. Questo è quanto. Per saperne di più dovremo attendere il deposito della motivazione, che si preannuncia a dir poco controversa, e perchè no, foriera di strumentalizzazioni, come spesso accade per vicende del genere. Non abbiamo la pretesa nè la presunzione di contestare la decisione adottata da 15 tra i più insigni giuristi del nostro Paese, che oltretutto hanno convenuto sul caso di specie senza alcun distinguo. Ma da umili operatori del diritto, ci sia perlomeno consentito coltivare qualche dubbio in ordine alla presunta irragionevolezza dell’operato della Procura palermitana, che in riferimento a qualche suo esponente potrà essere magari sospettata di faziosità, ma che non è di certo occupata ed organizzata da sprovveduti. Ed allora stiamo ai fatti. L’art. 90 della nostra Costituzione, al primo comma, recita così : “Il Presidente della Repubblica non è responsabile degli atti compiuti nell’esercizio delle sue funzioni, tranne che per alto tradimento o attentato alla Costituzione”. Ne deduciamo che per tutti gli altri atti, il Presidente, responsabile, lo sia come un comune cittadino. Nel senso che se, in preda ad un raptus, Giorgione dovesse un bel giorno affacciarsi al balcone del Quirinale e lanciare un sasso ad un corazziere, di sicuro non la passerebbe liscia per il solo fatto che è il capo dello Stato. Bene. E’ il caso ora di ricordare che nella fattispecie sulla quale ha deciso la Consulta, l’indagato non era Napolitano, ma Nicola Mancino, e che l’utenza telefonica intercettata non era quella del Colle ma dell’ex ministro degli interni. Aggiungiamo pure che le intercettazioni telefoniche vengono oggi eseguite con sofisticati strumenti computerizzati, attraverso i quali si individua l’utenza e la si monitora per tutto il tempo stabilito. Al termine dell’operazione che si compie in automatico, se ne acquisisce il file e lo si ascolta. La Consulta dice che quelle intercettazioni non dovevano essere neppure ascoltate : e cosa avrebbero dovuto fare gli addetti della Procura, mozzarsi l’orecchio non appena avessero sentito la voce del capo dello Stato? E perchè mai? Stavano forse intercettando il suo di telefono? O per caso indagando su un reato da lui commesso nell’esercizio delle sue funzioni? Nè l’uno nè l’altro. @angelo_cennamo