Gli studenti che vanno in piazza

 Angelo Cennamo       

Non è la prima volta che delle scorribbande di studenti gettano le nostre città nel caos, alimentando inutili tensioni anche con le forze dell’ordine ( le quali andrebbero pagate per fare ben altro che manganellare dei bulletti intenti a rifare il verso ai propri nonni sessantottini). Accade da almeno 40 anni a questa parte, e l’anno scolastico in corso non poteva di certo fare eccezione. Il bersaglio della mia generazione fu una ministra democristiana, si chiamava Franca Falcucci : si era impuntata sull’ora di religione proprio quando in parlamento i partiti battagliavano per un insegnamento più laico e rispettoso del nuovo concordato voluto da Bettino Craxi. Devo confessare che in quegli anni la politica non mi appassionava più tanto, ma allorquando intravvedevo l’opportunità di marinare la scuola ( e Dio sa quante volte quel ministro rese possibile a me e ai mie compagni di farlo) non mi tiravo mai indietro, anzi, ero sempre in prima linea per la chiusura dei cancelli. Altri tempi, ahimè!  Dell’ora di religione non me ne fregava un accidente, ma del pallone sì. E allora, piuttosto che andare sul corso con striscioni e fischietti, organizzavo delle piacevolissime sfide a cinque, sul campetto dietro il liceo, pregustando lo sciopero successivo che mi avrebbe consentito di disputare la finale del torneo.Oggi come ieri e l’altro ieri, gli studenti ( quelli più ideologizzati) vanno in piazza per difendere la scuola pubblica dai tagli dei governi e dal trattamento riservato alle scuole private. Per documentare la protesta basterebbe mandare in video immagini di repertorio, non se accorgerebbe nessuno. Forse i soli interessati, che si riconoscerebbero più giovani. Ovviamente non io, che come dicevo, trascorrevo il tempo delle manifestazioni altrove. Quelli più convinti indossano la maglietta con l’effige di Che Guevara. Alcuni si sono fatti crescere la barba, esattamente come i loro nonni che lanciavano i sampietrini alla Sapienza negli anni della guerra in Vietnam. Altri ancora sono ricoperti di cianfrusaglie e tra le dita si sono arrotolati una canna, che nella circostanza non guasta mai. Gridano slogan di una banalità disarmante usando il megafono per farsi belli ed autorevoli agli occhi degli altri che li seguono a ruota. Man mano che ti allontani dal corteo la convinzione di quegli urli è sempre meno sentita, tanto che nelle ultime file c’è sempre il simpatico che la butta sullo scherzo e grida : “Chi non salta juventino è!”, oppure : “Ollallala faccela vedè faccela toccà!”. Sono ragazzi; giocano a fare i grandi, e come molti adulti non sanno un cazzo della vita e di come va il mondo. Non sanno, ad esempio, che la scuola è sempre pubblica, anche quella che non è di proprietà dello Stato. Che quella che pretendono di difendere è la peggiore scuola d’Europa, e che loro stessi sono i peggiori tra tutti gli studenti europei. Non capiscono, nè gli insegnanti che sarebbero tenuti alla loro formazione spiegano loro che è il merito a far progredire le società e non l’egualitarismo, che, al contrario, appiattisce l’umanità sull’ignoranza. Che il connubio “scuola-impresa” non è lo sterco del demonio, ma l’unica ricetta contro la disoccupazione e la povertà. Sono indottrinati dai soliti maestri, gli stessi che hanno ucciso la famiglia e la morale religiosa in nome del nichilismo più laicista, saccheggiato l’istruzione e portato questo Paese nel baratro del debito pubblico, in nome della redistribuzione della miseria. Vogliono che tutto sia pubblico e gratis, dal professore alla cattedra, dal cassino al bidello, dallo scuolabus ai libri, dalla mensa al doposcuola. Salvo poi lamentarsi perchè i loro padri non hanno più i soldi per pagare le tasse, diventate nel frattempo troppo alte per mantenere questo circo gigantesco di funzionari statali e parastatali. Foto tgrai.it-oggi.it               

 

3 pensieri su “Gli studenti che vanno in piazza

  1. La disoccupazione è uno dei limiti del capitalismo: se ci sono più disoccupati si abbassa il costo del lavoro. Quindi, quando parliamo di scuola-impresa stiamo parlando solo del fatto che l’impresa permette ad un giovane di specializzarsi in qualche cosa di specifico a vantaggio di ambo le parti e per un tempo da considerarsi transitorio, salvo casi eccezionali. A tal proposito, le consiglio il libro “La disoccupazione e il terzo capitalismo” di Paolo Savona (Sperling&Kupfer).

    Attualmente le scuole private costano tantissimo, quindi il costo delle stesse rimane lo stesso alto per le famiglie. Non sarei contraria a rendere tutte le scuole private, purché i prezzi non diventino svantaggiosi e non debba decidere di tenermi i miei figli in casa e “autogestire” la loro educazione per colpa dei costi della scuola (che per le famiglie sono già altissimi a causa dei costi dei tantissimi libri e di tanto altro materiale).

    Una cosa interessante è che questi studenti diciamo “di sinistra” protestano forse senza rendersi conto che chi ha dato dignità alla scuola privata in Italia è stato Massimo D’Alema con la legge 62/2000 (poi leggermente modificata dalla Moratti, con il DM 27/2005 e la circolare 38/2005). Forse gli studenti, come Nanni Moretti nel famoso film, stanno aspettando che D’Alema dica o faccia qualcosa di sinistra!

  2. Leggerò il libro che mi ha suggerito. Ad ogni modo, la scuola privata ( che in realtà è anch’essa pubblica, dal momento che l’insegnamento è sempre una funzione pubblica, ovunque si compia) non mi risulta che costi così tanto alla collettività. Ma al di là dei costi, credo sia importante che tra le scuole ci sia una sana competizione e che ciascuno possa scegliere per i propri figli la formazione che preferisce. Per quanto mi riguarda, prediligo le scuole di proprietà dello Stato, se non altro perchè consentono una maggiore promiscuità sociale. Non mi sorprende quanto ha scritto su D’Alema, avendo il compagno Max fatto studiare i propri figli in un noto liceo privato della capitale.

  3. Sono stata fraintesa in quanto mi sono spiegata male: volevo dire che la scuola privata costa cara in quanto tale, non in quanto pesa sulla collettività (sebbene usufruisca largamente di contributi pubblici). Forse se tutte le scuole fossero private la concorrenza farebbe scendere i costi, ma credo che attualmente le rette siano sostenibili solo per poche famiglie di facoltosi (non so se c’entri la promiscuità: io posso essere pure facoltosa ed essere una camorrista).

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