Ad ottobre il Papa proclama dottore l’apostolo dell’Andalusia

don Marcello Stanzione

La grandezza di Giovanni d’Avila, questo sacerdote secolare spagnolo, proclamato già in vita apostolo dell’Andalusia, è stata riscoperta in questi ultimi 60 anni. Studi approfonditi di specialisti hanno permesso l’edizione critica delle sue opere. Giovanni nacque verso il 1500 ad Almodovar del Campo, a sud dell’attuale provincia di Ciudad Real, da Alfonso d’Avila, discendente da una famiglia ebrea convertita al cristianesimo e quindi considerata di “ cristiani nuovi” , e da Caterina Xixon, discendente da una famiglia di piccola nobiltà provinciale. Caterina per tredici giorni di seguito era andata in pellegrinaggio al santuario di santa Brigida, scalza e col cilicio ai fianchi, per chiedere un figlio a Dio per intercessione della santa svedese. Il Signore con la nascita di Giovanni l’aveva accontentata. La sua famiglia oltre che molto pia era pure  benestante in quanto proprietaria di miniere d’argento nella sierra Morena. Essendo ancora un fanciullo di appena dieci anni, Giovanni chiese ai genitori che gli mettessero a disposizione un luogo dignitoso della casa dove potersi recare lui solo a pregare. Quando raggiunse i venti anni dal padre fu mandato a studiare diritto canonico e civile presso l’Università di Salamanca. Una corsa di tori gli fece concepire un vivo disgusto per la vita mondana. Dopo quattro anni una “molto particolare chiamata divina “lo indusse a fare ritorno in famiglia . Di quegli anni a Salamanca dove frequentò 4 corsi di diritto, Giovanni serbò un certo tipo di ricordi alquanto negativi, che lo indussero talvolta a riferirsi alle leggi come a “ leggi nere”. In quel tempo fece un tentativo d vita religiosa, non sappiamo però in quale ordine e per quanto tempo. Fallito il tentativo, per tre anni il santo ottenne dai genitori di vivere in austero ritiro, poi si recò a studiare filosofia e teologia presso l’università di Alcalà (1520-1526), mentre Martin Lutero predicava in Germania la ribellione al papa e la conseguente rovinosa divisione del cristianesimo. Fu maestro di Giovanni il Padre Domenico de Soto , membro dell’Ordine dei Predicatori di San Domenico,  che a sua volta era stato discepolo di S. Tommaso da Villanova. In quel tempo l’università di Alcalà de Henares che, fondata nel 1498 dal cardinale Cisneros, aveva aperto ufficialmente i battenti nel 1509, risentiva dell’influsso di Erasmo di Rotterdam , ammiratore dell’umanesimo, amante dell’antichità classica e avversario della scolastica per i suoi barbarismi. In quella università Giovanni sviluppo un grande amore per la conoscenza della Bibbia e per la letteratura patristica. In quell’ambiente accademico strinse profondi legami affettivi con alcuni di coloro che poi sarebbero divenuti i grandi riformatori del cattolicesimo spagnolo e non solo, come Pedro Guerrero, futuro arcivescovo di Granada.  Nel 1526 fu ordinato sacerdote ed essendo i suoi genitori già defunti, decise di vendere tutti i beni di famiglia e di distribuirne il ricavato ai miseri e l’anno successivo, si recò a Siviglia con il proposito di andare nelle missioni dell’America, in compagnia del vescovo di Tlaxcala (Messico). Non poté mandare ad effetto il suo divisamento perché “cristiano nuovo” , cioè discendente da ebrei convertiti da poco alla fede. Il venerabile Ferdinando de Contreras (1548), sacerdote secolare,  probabile suo compagno di studi teologici ad Alcalà lo segnalò all’arcivescovo di Siviglia,  Don Alfonso Manrique, tanto era rimasto soggiogato dalla sua virtù. Il presule, che aveva bisogno di animatori per formare il clero, e di predicatori per ridestare i suoi fedeli dal torpore, dovette fare uso di tutta la sua autorità per persuaderlo a rimanere nella sua arcidiocesi. Il Santo, a contatto dei frati Domenicani della città, ebbe modo di correggere l’impronta nominalista che gli studi fatti ad Alcalà avevano lasciato nel suo spirito. Le correnti spirituali erasmiane, allora forti nel paese, lo avevano aiutato nella costante preoccupazione di risalire alle sorgenti bibliche e patristiche della religione cristiana. Egli esercitò il ministero apostolico in varie città dell’arcidiocesi di Siviglia, insegnando il catechismo ai bambini e la pratica della meditazione agli adulti, dando lezioni di Sacra Scrittura e trascorrendo molte ore nel confessionale. Il suo esempio fu contagioso. Numerosi sacerdoti si sentirono attratti dal suo genere di vita, lo assecondarono, si misero alla sua sequela per condividerne le austerità e lo zelo a favore delle anime. La sua memoria eccellente, il suo aspetto piacevole, la sua cultura teologica, la sua vita povera e casta insieme alla sua totale mancanza di ambizione di far carriera ecclesiastica gli attirarono numerosi estimatori. Era tanto distaccato dai beni della terra che, per le Messe celebrate e il ministero esercitato, accettava sempre più numerosi ed entusiasti tra tutte le categorie sociali. Con la parola ardente e piena di unzione, il Padre d’Avila attirava in chiesa o sulle piazze folle innumerevoli di persone. Fin da quei primi anni di sacerdozio molte persone si posero sotto la sua direzione spirituale, tra cui sacerdoti e laici di grande virtù. La migliore delle sue figlie spirituali fu forse la nobildonna Sancha Carrillo  la quale era andata al confessionale del santo ancora mondana e ne ritornata convertita e decisa a conservarsi casta; un giorno, a costo di uscirne malata, non esitò a immergersi nell’acqua fredda per domare una tentazione di sensualità. Nel 1531 fu denunciato all’Inquisizione per qualche espressione coraggiosa mal compresa e per certe pratiche interpretate con malevolenza, quasi fosse un seguace della corrente pseudo mistica degli alumbrados. Tra i denunciatori non mancava qualche bigotta fanatica, che vedeva ovunque eretici e che era solita  suscitare grane ai vari  confessori e predicatori di passaggio, o qualche ecclesiastico senza penitenti e senza uditori, invidioso delle affollatissime prediche del santo e della direzione spirituale da lui esercitata con tanto successo e con tanto frutto di conversioni strepitose. A fronte di cinque testimoni che l’accusarono, coloro che deposero a favore dell’imputato padre Giovanni di Avila furono cinquantacinque. Dopo un processo informativo (1531-1532), egli fu arrestato e costretto a rispondere, nel dicembre del 1532, a ventidue proposizioni incriminate. Tra l’altro gli fu imputato di favorire la pratica dell’orazione mentale quasi che ciò ridondasse a scapito di quella orale. Per certuni fu motivo di scandalo persino l’abitudine del santo di fare portare via il lume dalla sala o cappella in cui predicava per facilitare il raccoglimento degli uditori, lasciandoli nella penombra. Egli rimase in prigione quasi un anno senza mai pronunciare una sola parola di recriminazione contro i suoi troppo zelanti inquisitori. Da quella triste circostanze della vita egli seppe trarre grande profitto, pregando, meditando, traducendo in volgare l’Imitazione di Cristo del Kempis. Dio lo arricchì di speciali lumi sul mistero della redenzione che gli permisero di gettare le basi dell’opera, maggiormente nota, intitolata Audi, filia. E’ un libro di avvisi e di regole cristiane per coloro che desiderano servire il Signore nella via non facile e comoda della perfezione.  Lo scritto era destinato alla figlia spirituale Sancha Carrillo, che, convertita da Giovanni, viveva in famiglia come un’austerissima claustrale Uno dei primi posti dove il Maestro d’Avila , dopo essersi stabilito a Siviglia, tiene la sua predicazione è Ecija. Lì risiede la famiglia dei Signori di Guadalcàzar. Essi hanno due figli: don Pedro Fernànez de Còrdoba, chierico con forti tendenze riformatrici  e donna Sancha Carrillo, che all’epoca è sui quindici o diciassette anni. E’ bella e consapevole del suo fascino, per cui non è strano che, data la sua posizione sociale, sia dedita, fino all’eccesso, alle vanità del mondo. Inoltre, proprio nel periodo in cui san Giovanni d’Avila predica ad Ecija,  la ragazza si sta preparando per trasferirsi alla Corte come dama di corte di donna Isabella del Portogallo, sposa dell’imperatore Carlo. Il fratello Pedro, che aveva ascoltato la predicazione di san Giovanni d’Avila, la persuase ad andarsi a confessore da lui, convinto che le parole del santo sacerdote avrebbero toccato il suo cuore alquanto vanesio e le avrebbero fatto cambiare vita. Un bel giorno, abbigliata con il lusso che le era abituale, si avvicinò al confessionale del predicatore: quando ne uscì, era completamente cambiata. Prova del cambiamento radicale è che passò il resto della sua vita ritirata in alcune stanze della sua abitazione, in durissima penitenza corporale, digiunando, usando terribili cilici e dormendo su un letto di sughero. Oltre a questo la sua vita era dedita alla preghiera continua, alla contemplazione e alle opere di pietà. La vita spirituale di donna Sancha fu di  altissimo tenore e ricca di grazie straordinarie. Morì molto giovane, il 3 agosto 1537, a soli 25 o 26 anni di età. In una lettera che anni dopo san Giovani d’Avila indirizzò a fra Luigi di Granada gli diceva che è facile concepire dei figli, ma che  molto più difficile darli alla luce e ancor più allevarli. Questo concetto era frequente nelle sue prediche ai sacerdoti. E’ indubbio che concepì per la vita cristiana, diede alla luce e poi accompagnò donna Sancha Carrillo nel corso di tutta la sua vita. Il cui frutto fu una grande santità. Tra gli aiuti che il santo le offrì va annoverato questo libro a lei dedicato. Perché potesse progredire nella vita cristiana, Giovanni le indicò minuziosamente il cammino da percorrere e l’accompagnò. Così questo libro, che allora era solo una serie di appunti, dette i frutti sperati. Il libro Audi, filia fu stampato del 1556 ad Alcalà , senza espressa licenza dell’autore, dopo che era circolato a lungo in copie manoscritte. Nel 1559 fu incluso nel Catalogo dei libri proibiti, pubblicato dall’Inquisizione spagnola, in seguito alla scoperta di focolai di luteranesimo in Andalusia e in Castiglia, per il modo con cui trattava il tema della giustificazione, ma  soprattutto per l’eccessivo sospetto con cui venivano riguardati dagl’inquisitori i libri di ascetica e di teologia scritti  in lingua volgare, quasi fossero veicoli di idee care ai falsi mistici e ai luterani. Difatti nel catalogo furono incluse anche le altre opere di Luigi di Granada, di  san Francesco Borgia e persino di Bartolomeo Carranza, arcivescovo di Toledo e primate di Spagna. Il santo corresse il libro con notevole cura e precisò meglio la dottrina sulla Grazia alla luce del concilio tridentino. Esso uscì a Toledo, nel 1574, dopo la morte dell’autore. Quando anni prima in un momento difficile del processo dell’Inquisizione, gli dissero che era “ nelle mani di Dio”, prospettandogli una eventuale condanna da parte del tribunale, Giovanni rispose che non poteva essere che in mani migliori. Infatti essendosi affidato totalmente a Dio il  padre d’Avila fu assolto dall’Inquisizione il 16 giugno1533 e la sentenza fu pubblicata il 5 luglio 1533. Ritornò a predicare. Il tribunale però gli ingiunse di chiarire nelle sue prediche alcune affermazioni a causa delle quali era stato accusato dai suoi malevoli ed invidiosi  detrattori ed in tal modo eliminare qualsiasi malinteso anche per il futuro. I devoti di Siviglia lo accolsero in chiesa al suono delle trombe. L’anno successivo nel 1535 egli si trasferì nella diocesi di Cordova e da lì continuò la sua feconda opera di evangelizzazione in tutta l’Andalusia. A Cordova che rimase per vent’anni la sua residenza preferita,  s’incontrò con il famoso domenicano padre Luigi di Granada, suo  primo biografo con il quale sarebbe rimasto molto legato spiritualmente e da S. Francesco di Sales proclamato “principe degli scrittori spirituali”. Costui, appartenente all’ordine dei Predicatori, rimase profondamente ammirato della predicazione così immediata e avvincente del santo prete secolare, tanto da subirne il fascino per il resto della sua vita e attraverso i suoi scritti la dottrina di Giovanni d’Avila si estese alle generazioni posteriori.  A Granada su invito dell’arcivescovo Gaspare de Avolos, che teneva in grande considerazione i suoi consigli Giovanni, contro la sua consuetudine di alloggiare in povere abitazioni,  dovette per forza prendere alloggio nel palazzo dell’arcivescovo perché questi spesso gli chiedeva consiglio sui gravi affari del governo della diocesi e per ricevere la sua direzione spirituale e pure la consulenza teologica. Giovanni pur essendo interpellato frequentemente dal vescovo non disdegnò di fare attività pastorali umili e si dedicò personalmente all’insegnamento del catechismo ai fanciulli per le strade di Granada che egli chiamava la “ mia” Granada e faceva in modo ogni giovedì  di predicare al popolo sulla Eucarestia.  Al principio del 1537, mentre predicava nella suddetta città, convertì S. Giovanni di Dio, fondatore dei Fate bene fratelli, e due anni più tardi indusse il duca di Gandìa, il futuro san Francesco Borgia, a lasciare il mondo per farsi gesuita ed in seguito divenne generale dell’ordine fondato da sant’Ignazio di Loyola. A Granada fu considerevole l’influsso che il santo esercitò sull’università fondatavi nel 1526 dall’imperatore Carlo V  e sui collegi maggiori ad essa annessi. Fu forse in questa città che il santo ottenne verso il 1537 i gradi in teologia, il che dimostra quanto amasse lo studio delle scienze sacre da meritare il titolo di “ Maestro” benché fosse continuamente molto occupato nel  ministero pastorale. Possedeva un’aggiornatissima biblioteca in cui figuravano pure i libri dei migliori controversisti cattolici del tempo.  Nutrì sempre una grande preoccupazione per la formazione e la riforma del clero e per questo scopo fondò molte istituzioni. Durante i suoi viaggi apostolici, il Maestro d’Avila fondò una quindicina di collegi minori e tre maggiori a Baeza,  Jerez e Cordova, oltre ai collegi di Granada, Cordova ed Evora (Portogallo) su iniziativa del vescovo locale don Enrico, per l’educazione e l’istruzione dei chierici. Il più famoso di tutti fu quello di Baeza, trasformato in università nel 1542 per rescritto di papa Paolo III.  A Baeza per volontà del santo che dimostrò pure le straordinarie doti di organizzatore che possedeva, in essa s’insegnavano soltanto filosofia e teologia, benché la Santa Sede fosse stata larga nel concedere licenze, e si conferirono gradi accademici soltanto a quei sacerdoti che prima avevano esercitato il ministero pastorale nei villaggi. Egli insegnò senza stancarsi ai sacerdoti che il solo onore per la Chiesa è di seguire interiormente ed esteriormente il Cristo disprezzando le ricchezze, il lusso, l’orgoglio e tutti gli altri difetti che farebbero gridare le pietre stesse. Si occupò con molti sacrifici di trovare i sostegni economici per le sue fondazioni ed essendo un uomo di genio brevettò ben quattro sue invenzioni per trasportare l’acqua. A Baéza, nella diocesi di Jaén, egli si occupò di tutto, diresse la costruzione dei tre edifici che costituirono la fondazione (il collegio universitario , la chiesa e le aule della scuola primaria), redasse gli statuti, scelse i professori, tracciò il piano degli studi, ecc. Al termine della permanenza del Maestro a Baèza, nel 1544, nella nuova università erano stati creati gli studi superiori di filosofia, teologia e Sacra  Scrittura, ai quali si sarebbero aggiunti, più tardi, quelli di diritto. La particolare attenzione che il d’Avila dedicò alla nuova università non lo allontanò dagli altri ministeri sacerdotali. La predicazione continuò ad essere quella che per lui era stata fino a quel momento e che avrebbe continuato ad essere fino agli anni di Montilla. E, alternando il pulpito col confessionale, il Maestro d’Avila proseguiva il suo lavoro di direzione e di consiglio alle anime che ne avevano bisogno.  Nelle apostoliche attività era coadiuvato da un gruppo di oltre venti preti  che dirigeva spiritualmente, che avviava all’insegnamento del catechismo e delle altre materie nei collegi da lui fondati, e alle missioni popolari. S. Ignazio di Loyola cercò di unire alla Compagnia di Gesù il folto gruppo dei seguaci di S. Giovanni d’Avila, ma non vi riuscì anche se una trentina di figli spirituali di Giovanni scelsero di diventare gesuiti….  Ignazio si adoperò moltissimo, anche a costo di concedergli “qualunque privilegio” e dispensa, per attrarre a sé la loro guida, per diversi anni, si mostrò desideroso di farsi gesuita, ma all’ingresso nella Compagnia di Gesù furono d’impedimento l’età e la salute, la condizione di “cristiano nuovo” , l’essere stato religioso, l’essere stato perseguitato dall’Inquisizione e la diversità di vedute con taluni gesuiti spagnoli riguardo a problemi ascetici e apostolici. A cominciare dal 1551, Giovanni,che non mangiava mai carne e si nutriva di legumi, melegrane, fichi e frutta, fu costretto sovente a stare a letto. Gli ultimi nove anni di vita li trascorse a Cordova e a Montilla, adoperandosi perché i suoi migliori discepoli si facessero gesuiti. Gli acciacchi della vecchiaia, le febbri che si alternavano a dolori di stomaco e di gotta, non gl’impedirono di continuare a dirigere molte anime con la parola e con gli scritti. La stessa Teresa d’Avila sottopose al suo giudizio il manoscritto dell’Autobiografia ed egli lo approvò pienamente. S. Pietro d’Alcantara dichiarò che nessuno lo sorpassava nella conoscenza delle vie spirituali, ciononostante egli rimase un eclettico e più un asceta che un mistico. Oltre all’Audi, filia possediamo di lui piccoli trattati o discorsi, conferenze spirituali, avvisi, e due memorie sulla riforma ecclesiastica per il Concilio di Trento. Più di 2.000 fogli degli scritti del santo sono andati perduti perché egli stesso decise di bruciarli. Le lettere rimaste sono 260, ma non è improbabile che ne abbia scritte qualche migliaio, emulo in questo di S. Francesco di Sales. La dottrina del santo è incentrata sull’imitazione di Cristo Salvatore. Per lui fondamento indispensabile di tutta la vita spirituale è la preghiera senza la quale è impossibile conoscersi. Alle anime più perfette egli raccomandò l’orazione di raccoglimento. Prima di ricercare l’intima unione con Dio , suggerisce di meritarla spogliandosi delle passioni con una costante mortificazione. La virtù non è possibile senza l’umiltà. Essa consiste nel camminare nella verità. Egli insegna che bisogna scavare nel fango del nostro nulla per raggiungere la terra ferma: Dio. Poiché il Signore sulla croce ci ha donato tutto , dobbiamo amarlo fino alla follia e seguirlo sulla croce. Nell’incorporazione a Cristo vede il fondamento dell’apostolato. E’ un dovere quindi di tutti amare e sovraspendersi per le membra di Gesù alle quali siamo strettamente legati mediante la grazia.  All’arrivo della primavera del 1569 le sue sofferenze aumentarono sensibilmente e prevedendo la sua salita al cielo il Maestro ricevette l’unzione degli infermi ed il 9 maggio gli fu portato il viatico. La sua devozione all’eucarestia assunse un rilievo insospettato. L’adorazione  del Signore lo occupava ore intere. Un giorno si intratteneva facendo orazione nel presbiterio della chiesa parrocchiale di Montilla mentre si stava celebrando una messa. Egli osservò che il sacerdote procedeva con un’evidente e angosciante trascuratezza rituale. Arrivando alla consacrazione e vedendo che questi tracciava frettolosamente e senza alcuna devozione i segni di croce che la liturgia prescriveva sull’ostia e sul calice, non poté trattenersi. Si levò da dov’era seduto, si avvicinò devotamente al sacerdote e gli disse a bassa voce: “Fratello, trattalo bene, perché è Figlio di un grande Padre”. Nel 1568 le infermità del maestro si era aggravate in modo allarmante. Le febbri si alternavano a dolori di stomaco e di gotta. Ma queste lancinanti sofferenze non piegavano l’indomabile energia del santo. Fu in quell’anno che ricevette una lettera di santa Teresa di Gesù, nella quale ella chiedeva consiglio in merito alle prove che si trovava ad affrontare in quel tempo e gli consegnava, per questo, quanto di sé aveva scritto di propria mano. In quegli anni, la santa riformatrice del Carmelo dovette passare la dura prova delle contraddizioni. Ora era lo stesso spirito della santa che era sottoposto alla prova. Le visioni e rivelazioni spirituali che riceveva suscitavano l’opposizione di persone importanti. L’Inquisizione si preparava a intervenire contro la monaca riformatrice. In queste circostanze santa Teresa di Gesù si rivolse alla riconosciuta autorità del maestro Giovanni d’Avila che viveva ritirato a Montilla. Il Maestro, benché gravemente ammalato, seppe comprendere fin dal primo momento che nell’esperienza interiore di cui ella soffriva c’era la mano di Dio. La lettera che scrisse a Teresa, il 12 settembre 1568, è un monumento di sapienza spirituale, che accredita una volta di più l’altezza del Maestro nella difficile arte della direzione spirituale delle anime sante. Questa lettera lasciò la santa fondatrice molto consolata per tutto il resto della sua esistenza. Quando, un anno più tardi, a Toledo la monaca fu raggiunta dalla notizia della sua morte, non poté trattenere le lacrime, e a chi le chiedeva stupito, il motivo di questo pianto, ella rispondeva subito: “Piango perché la Chiesa  di Dio perde un grande sostegno e molte anime il grande aiuto chiede ricevevano da lui; la mia anima, benché tanto lontano gli era obbligata proprio per questo”. All’arrivo della primavera del 1569, i mali aumentarono. Il Maestro presentiva la fine. Ricevette con grande fervore l’unzione dei malati e il 9  maggio il viatico. “Datevi a me, Signore, datevi  a me Signore”, diceva con volto allegro in mezzo ai suoi dolori, vedendo il sacerdote entrare nella sua stanza. Giunse in quel momento la marchesa di Priego, la donna che aveva tanto ammirato il padre d’Avila, e gli chiese cosa volesse che si facesse per lui. “Messe, Signora; molte Messe , e presto”, fu la sua risposta. Gli chiese poi dove desiderava essere sepolto. Il Maestro rispose che desiderava essere sepolto nella chiesa dei padri della Compagnia di Gesù, che in vita aveva tanto amato e ai quali voleva donare il suo corpo perché lo avessero sempre come una cosa che apparteneva a loro. Teneva tra le mani il crocifisso e lo baciava continuamente. Recitando, con voce quasi impercettibile, delle giaculatorie. Le ore passavano lentamente. All’alba, aprì gli occhi, già quasi chiusi per sempre, rivolse lo sguardo a un quadro dell’Ecce Homo che era affisso alla parete e dopo averlo guardato per un po’, esclamò tranquillo :” non ho timore di questo affare”. Poi non parlò più. Il suo respiro si spense gradualmente poco a poco. Giovanni d’Avila era morto con grande serenità. Era il 10 maggio del 1569. nella cittadina andalusa di Montilla, presso Cordova e fu inumato nella chiesa dei gesuiti come aveva espressamente chiesto. Leone XIII lo beatificò il 15-4-1894; Pio XII lo proclamò patrono principale del clero secolare spagnolo nel 1946; Paolo VI lo canonizzò il 31-5-1970 in modo equipollente, cioè senza il solito processo canonico. Il 7 ottobre 2012 il papa Benedetto XVI lo proclamò Dottore della Chiesa universale insieme alla abbadessa benedettina tedesca Ildegarda di Bingen.