Antonio Ianniello uno straordinario attore – regista

   Alfonso Mariano

Siamo con il famoso attore Antonio Ianniello, toccata e fuga qui a Bellizzi per salutare i genitori; un’occasione ghiotta per intervistarlo. Allora Antonio, sappiamo che ti stai dedicando molto al teatro lasciando un poco da parte i film, qualche anticipazione? Porto in giro un mio spettacolo, scritto, diretto e interpretato, con uno dei maestri del teatro italiano, Paolo Graziosi; siamo stati già a Milano, in Abruzzo, molte rappresentazioni nel Lazio, a Roma al Teatro Valle, spero di riprendere alla fine della prossima stagione. Intanto l’ultimissima cosa che ho fatto e che mi riporterà a Singapore per l’anno prossimo è “Il libro dei morti e dei viventi” che ho scritto  e interpretato per il Festival Internazionale di Singapore, che mi ha portato prima ad una profonda ricerca sui testi di religione Buddista, in Tibet , poi di nuovo a Singapore per mettere in scena questo spettacolo al Festival Internazionale, importantissimo che ha visto la partecipazione Peter Brook invitato da Giorgi Barberi Rossetti, da Vitale, una delle mete del teatro internazionale, io sono stato particolarmente felice per aver avuto la possibilità di rappresentare un lavoro scritto ed interpretato da me. Spero di dedicarmi alla mia passione, continuare a scrivere le mie cose portare in scena creare una mia poetica per quanto è possibile; spero di fare quanto meno televisione anche se poi bisogna vivere e qualche “prodotto” bisogna accettarlo. Una evoluzione artistica: Antonio nasce come attore e pian piano con lo studio e performance artistiche di grande livello, si sta ritagliando un posto come regista, come protagonista. Sì penso che sia un percorso normale, mi sta seguendo un collega scenografo, uno dei migliori in Italia, ha detto che la mia normale evoluzione, io lo trovo abbastanza organico in questo momento, non lasciando da parte l’attore perché noi abbiamo una grandissima tradizione di attori, i grandi del teatro del Novecento erano innanzitutto degli attori per cui chi ha frequentato le scene ha più attitudine alla scrittura scenica, perché ritirandosi in una cameretta ha una concezione più pragmatica del testo, del teatro, dimostra grande entusiasmo creativo, un momento artistico molto intenso. Al di là delle tue creazioni a chi ti ispiri particolarmente come personaggi? Diciamo che tra i viventi quelli che più ammiro sono sicuramente Valerio Binasco, un regista quarantenne straordinario, Carlo Cecchi, Thomas Ostermeier, Peter Brook, i “fari” sono questi, io li studio sono loro che mi trasmettono qualcosa anche andando a vedere cinque o sei volte di seguito lo spettacolo. Io credo che ci sia grande mancanza da parte degli attori della mia generazione; molti miei coetanei, conoscono a memoria tutte le battute di Robert De Niro in Taxi Driver, anche io, perché è uno dei miei miti, però tanti non conoscono ad esempio Carlo Cecchi uno dei registi teatrali che ha fatto la storia del teatro italiano e questo crea un gap molto forte alla nostra cultura, alle nostri radici perché va benissimo Robert De Niro e il cinema americano che ci ha formato, però per quale motivo non posso sapere che negli anno Settanta/Ottanta Eduardo De Filippo, Carlo Cecchi e Carmelo Bene hanno provato a mettere in scena “La serata a Colono”  di Elsa Morante un’autrice che amo particolarmente e anche Eduardo De Filippo. Parliamo di grossi nomi, questo significa costante aggiornamento ed un continuo studio. Sì, quello che faccio ultimamente è questo, è la mia passione più grande, non credo si possa  perder tempo ad autopromuoversi, facendo il “Vangelo” delle cose che si stanno facendo io penso che bisogna continuamente superare quello che si è fatto, altrimenti non è più arte, è solo autopromozione e musei di se stessi. Dei tanti filmi girati che cosa ti è rimasto, in particolare. Una consapevolezza molto forte, me ne sto accorgendo dirigendo degli attori miei coetanei e Paolo  Graziosi, che la visione degli attori molto spesso è periferica; l’attore per sé è un narciso egocentrico che all’interno del sistema più grande, perde di vista il sistema, per cui chi dall’esterno, in questo caso io che facevo il regista, ha la visione d’insieme, si rende conto quanto è piccola l’esistenza di un attore all’interno di un sistema teatrale ma anche culturale più ampio. E’ anche una metafora dell’individualismo di questi tempi, dovremmo essere più registi della società piuttosto che attori e basta. Secondo te c’è più finzione nel cinema o nel teatro? Sinceramente non lo so, ma di certo, Marlon Brando diceva il cinema è dei registi, il teatro è dell’attore, se non entri in scena non succede niente,  la televisione è di chi resta, il livello di massima finzione si verifica al cinema, finzione pura. Che cosa ti senti di suggerire ai giovani che vedono nel mondo della “celluloide” un punto di arrivo e non di partenza. Negli anni Sessanta/Settanta/Ottanta, c’era il sogno di poter lavorare in Italia con Federico Fellini ed altri grandi registi, oggi il mercato dell’attore giovane è la televisione; Matteo Garrone, Paolo Sorrentino, girano un film ogni tre anni, il mio scopo sarebbe aspettare tre anni per poi vedere se quel film fa per me, ragion  per cui da qui ad un film con loro, c’è il lavoro: fiction ed altro. Secondo me bisogna coltivare la visione autentica  della propria professione, altrimenti se devo prestare il mio lavoro all’idea o alla non idea, perché molto spesso i prodotti televisivi sono un’assenza di idee, alla fine mi ritrovo vuoto. Abbiamo parlato del presente, nel tuo ravvicinato futuro invece? In questo momento, tutto ciò che precede un atto creativo è sempre molto caotico, sto studiando qualsiasi cosa, rileggendo Shakespeare e Strindberg  in particolare. La mia prossima idea è mettere in scena un classico, lavorare semplicemente come regista, potrei mettere in scena o  Shakespeare, Anton Cechov, August Strindberg, classici, ma duri da portare in scena; o “muori”, o ne esci fortificato, mi stimola moltissimo portare qualcosa di impossibile in scena