"Un quadro di valore" Racconto breve

Angelo Cennamo
“Eduà, avviati in aula e comincia a scrivere il verbale. Io intanto aspetto i fratelli Cimmino giù all’ingresso. Mi raccomando, se dovessi incontrare il collega Barbato, digli di attendermi che tra un po’ cominciamo”.Quella mattina, Colajanni era arrivato in Tribunale stravolto; il suo garagista aveva chiuso l’autorimessa per lutto, lasciando tutte le auto chiuse a chiave nel parcheggio, con la saracinesca abbassata. L’avvocato fu costretto a chiamare un taxi e pagarlo profumatamente. Per non arrivare tardi in udienza, infatti, aveva supplicato l’autista di non curarsi della segnaletica stradale, semafori rossi compresi. Quando il tassista si fermò a Castel Capuano, il rumore della frenata si sentì fino a Poggioreale. Colajanni indossava un completo di lino bianco e una cravatta blu scuro. Dal taschino della giacca fuoriusciva una pochette in tinta che, a occhio, poteva avere le dimensioni di un’asciugamani. Ai piedi calzava dei mocassini neri morbidissimi, senza calzini, e la sigaretta che portava tra i denti, per la tensione accumulata, aveva finito per stritolarla. Quel giorno, dal giudice Francavilla si teneva la prova testimoniale della causa intentata dall’ing. Angelo Covatzky contro Renato Bagutta, il sarto “ufficiale” dello studio. Covatzky, a dispetto del cognome polacco, era napoletanissimo. Di mattina lavorava all’Italsider di Bagnoli, e di pomeriggio si dedicava alla progettazione di prototipi da corsa, che proponeva senza successo alle migliori case automobilistiche nazionali ed estere. A Bagutta, l’ingegnere aveva commissionato delle giacche di seta; gli servivano per le gare di ballo alle quali amava partecipare di tanto in tanto. Sì perchè Covatzky, se di giorno si mostrava sobrio e composto, in perfetta linea con i canoni estetici tipici della sua categoria professionale, di notte, invece, si trasformava in un eccentrico e coloratissimo ballerino di salsa. Chi lo avrebbe mai detto. In cambio delle giacche, Bagutta dall’ingegnere non volle del denaro, ma un quadro che aveva visto nel salotto di casa sua, a via Orazio. Si trattava di un olio su tela che riproduceva l’immagine di una nobildonna, circondata da altre figure femminili, forse delle cortigiane. Covatzky accettò lo scambio senza eccepire alcunchè. In più si premurò lui stesso di trasferire il quadro da casa sua all’atelier di via Poerio. Due anni dopo, per puro caso, l’ingegnere fu invitato ad un convegno sulla pittura italiana del ‘600, organizzato al Maschio Angioino da un noto critico d’arte di origini francesi, e con il patrocinio dell’Università Federico II. Covatzky, che prima di allora non aveva mai messo piede ad una mostra d’arte, e che gli unici dipinti che lui sarebbe stato in grado di riconoscere ed attribuire con certezza al loro autore potevano essere al massimo “La Gioconda” e “L’ultima cena” di Leonardo, fu colto da una spiacevole sorpresa. Il quadro, che con tanta leggerezza aveva ceduto a Bagutta in cambio di quelle giacche di seta, non era, come credeva, una delle tante croste esposte sulle pareti del suo appartamento, ma un capolavoro di Luca Giordano, di inestimabile valore. Non appena si rese conto del grave errore commesso, l’ingegnere andò su tutte le furie e pensò che Bagutta lo avesse voluto truffare. In realtà, a Bagutta, che di arte se ne intendeva ancora meno di Covatzky, quel dipinto era piaciuto semplicemente perchè era “a pittura”, una strana espressione con la quale a Napoli viene definito un quadro di valore. Colajanni, che nella causa difendeva il convenuto Bagutta, aveva citato come testimoni i fratelli Antonio e Salvatore Cimmino per dimostrare che dietro la richiesta del quadro, da parte del suo assistito, non si celasse nessun intento fraudolento. I Cimmino, infatti, raccontarono al giudice istruttore che, in un primo momento, la scelta di Bagutta era caduta su un quadro diverso da quello rivelatosi poi di Luca Giordano. Al sarto piaceva un paesaggio di campagna con dei puledri bianchi che scorazzavano vicino a un torrente. Diceva che quell’immagine, così bucolica ( “bucolica” ovviamente fu la parola indicata da Colajanni nella memoria difensiva) gli ricordava Cairano, il paese dov’era cresciuto. Ma Covatzky insistette perchè Bagutta si prendesse il dipinto con la nobildonna e gli lasciasse quell’altro. Forse perchè dall’alto della sua incomptenza lo aveva giudicato di maggiore valore. L’ingegnere, pur di riprendersi il capolavoro di Giordano, chiese tramite il suo avvocato la rescissione del contratto, ipotizzando a carico di Bagutta un approfittamento del suo stato di bisogno. Ma Colajanni non fece alcuna fatica a dimostrare l’agiatezza dell’ingegnere, che abitava a Possillipo ed aveva a suo servizio ben due domestiche, e così vinse la causa con scioltezza.