A te che leggi dopo mezzanotte…"Non c'è più niente da fare…"
Giuliana Rocci
Ormai si lasciava tutto alle spalle: aveva fatto l’ultimo passo, il più doloroso, che mai avrebbe voluto. Tentare di contattarlo per chiarire, prima di levare l’ancora…muto il suo cellulare, come l’ odiosa segreteria sempre attiva! Così ricordava quell’apostolo della lacrima sul viso, che rammentava tanto la solitudine non solo del brano, ma anche del cognome. Infatti, Bobby, col suo ciuffo che andava su e giù, alla Beatles, sembrava quasi contento di quella lacrima sul viso, più che disperato nel cantarla. Per cui, continuò il suo filone romantico, vivisezionando quasi l’amore: “Non c’è più niente da fare…è stato bello sognare…la vita ci ha regalato…” Era stato proprio così per lei! Che ancora non si raccapezzava a come lui avesse azzerato tutto, cancellato emozioni e sentimenti in un momento… anni d’incontri e di scontri, di silenzi e d’empatie, di dialoghi e di solitudine. Lui, che aveva sempre afferrato la loro storia dalla parte del sottogamba per non perdere…che aveva scazzottato il suo cuore, giocando con le nuvole di passaggio, sicuro che il sereno sarebbe ritornato sempre tra loro! Ora, lui, aveva abiurato a viversi una favola, coartato quasi dalla paura che la favola diventasse troppo reale senza aver coraggio di viverla! Ma lei, ora doveva andare…davvero non c’era più niente da fare, tranne che cancellare definitivamente non solo dalla memoria del cellulare, ma dal suo cuore, i lunghi anni con lui, asciugandosi furtivamente, prima di salire in treno, l’ultima lacrima di rimmel!
Giuliana, lei mi farà morire (dalla rabbia) un giorno: troppo romantica.
Con quel “prima di salire in treno” mi ha ricordato quella poesia in cui Carducci dà addio alla sua amata alla stazione in un mattino d’autunno.
Oh quei fanali come s’inseguono
accidiosi là dietro gli alberi,
tra i rami stillanti di pioggia
sbadigliando la luce su ‘l fango!
Flebile, acuta, stridula fischia
la vaporiera da presso. Plumbeo
il cielo e il mattino d’autunno
come un grande fantasma n’è intorno.
Dove e a che move questa, che affrettasi
a’ carri foschi, ravvolta e tacita
gente? a che ignoti dolori
o tormenti di speme lontana?
Tu pur pensosa, Lidia, la tessera
al secco taglio dài de la guardia,
e al tempo incalzante i begli anni
dài, gl’istanti gioiti e i ricordi.
Van lungo il nero convoglio e vengono
incappucciati di nero i vigili
com’ombre; una fioca lanterna
hanno, e mazze di ferro: ed i ferrei
freni tentati rendono un lugubre
rintocco lungo: di fondo a l’anima
un’eco di tedio risponde
doloroso, che spasimo pare.
E gli sportelli sbattuti al chiudere
paion oltraggi: scherno par l’ultimo
appello che rapido suona:
grossa scroscia su’ vetri la pioggia.
Già il mostro, conscio di sua metallica
anima, sbuffa, crolla, ansa, i fiammei
occhi sbarra; immane pe ‘l buio
gitta il fischio che sfida lo spazio.
Va l’empio mostro; con traino orribile
sbattendo l’ale gli amor miei portasi.
Ahi, la bianca faccia e ‘l bel velo
salutando scompar ne la tenebra.
O viso dolce di pallor roseo,
o stellanti occhi di pace, o candida
tra’ floridi ricci inchinata
pura fronte con atto soave!
Fremea la vita nel tepid’aere,
fremea l’estate quando mi arrisero;
e il giovine sole di giugno
si piacea di baciar luminoso
in tra i riflessi del crin castanei
la molle guancia: come un’aureola
piú belli del sole i miei sogni
ricingean la persona gentile.
Sotto la pioggia, tra la caligine
torno ora, e ad esse vorrei confondermi;
barcollo com’ebro, e mi tocco,
non anch’io fossi dunque un fantasma.
Oh qual caduta di foglie, gelida,
continua, muta, greve, su l’anima!
Io credo che solo, che eterno,
che per tutto nel mondo è novembre.
Meglio a chi ‘l senso smarrì de l’essere,
meglio quest’ombra, questa caligine:
io voglio io voglio adagiarmi
in un tedio che duri infinito.