La depressione: analisi dei bisogni sul territorio
Abulia, angoscia, nichilismo, annullamento della personalità, degrado (spesso), vuoto, e un grande disagio: una “malattia” (sociale) ma anche una “non malattia”, uno stato di precarietà. Stiamo parlando del cosiddetto “male oscuro”, piaga (soprattutto ma non soltanto) dei nostri giorni: la depressione, condizione invalidante scaturita da eventi e condizioni – esterne o interne – che la società moderna sempre più preoccupante causa a categorie e fasce sociali più sensibili e deboli. È un campo, come del resto succede per quanto riguarda lo studio del cervello umano, materia complessa e affascinante, ancora tutto da esplorare. Quello che noi che scriviamo vogliamo stigmatizzare è – però – oltre alla situazione di black out che i poveri pazienti sofferenti di questo “morbo” vivono, anche una certa risposta da parte dello stesso tessuto sociale ma soprattutto da parte delle istituzioni sanitarie locali (in gran numero al Sud) o nazionali – anche se molto sta già cambiando, in quanto la depressione incide sui costi della sanità ed oggigiorno il fenomeno clinico si sta espandendo endemicamente ed epidemicamente – che emarginano i “malati” che “contraggono” la depressione stessa rendendoli a guisa di reietti, di paria, di “intoccabili” nell’ultima casta dei sofferenti (insieme ai malati di Aids o di tumore). I depressi sono considerati quasi un “peso”, un onere per la comunità umana, per le varie collettività del mondo moderno, in particolar modo gli industrializzati occidentali, ricchi e pasciuti (“O’ sazio nun crere au riuno”, “L’uomo sazio non crede all’uomo digiuno”, cioè “Chi sta bene non ascolta le istanze e i bisogni di chi vive nell’indigenza” – recita un saggio proverbio napoletano); in altre culture, invece, sempre e comunque “mutatis mutandae”, ossia: “Cambiando ciò che si deve cambiare”, i malati di mente e i “pazzi” (ma chi lo è di più, nel nostro mondo così corrotto e depravato?) sono visti come invasati dagli spiriti che vengono evocati presso il nucleo familiare: spiriti buoni o cattivi, non importa, certo è che gli aborigeni di posti sperduti nei diversi continenti ritenevano (e ritengono ancora, in qualche parte delle nazioni “sottosviluppate”, feticistiche e animistiche) i depressi sacri e degni di onore e rispetto, in quanto saggi e veggenti collegati – in un qualche modo – con l’Aldilà. Ossequi dunque a chi è “affetto” da tale “malattia” dei nervi, spesso apostrofato con parole umilianti ed offensive, bollato come “handicappato”, “mongoloide”, “pazzo”, “idiota” e chi più ne ha più ne metta. Una società selettiva e competitiva, la nostra, che mette al bando chi soffre di crisi depressive e loro indirette conseguenze (panico, ansia, disturbi della personalità, carattere borderline) o chi in generale “non è normale” (ma fin dove arriva, dove si spinge il concetto di normalità?) anche nella Valle dell’Irno, anche nell’isola (non sempre) “felice” (?) di Mercato S. Severino. Proprio in questa fattispecie, ricordiamo che, sebbene esista – ci sembra nella stessa sede di Palazzo di Città – a S. Severino un Osservatorio sul Disagio Giovanile ad hoc e un apposito assessorato alle Politiche Giovanili – istituzioni entrambe ben funzionanti, per carità! – tuttavia il fenomeno della stessa depressione è acutamente avvertito in modo preponderante dagli adolescenti e dai ragazzi del comprensorio e/o del resto del territorio limitrofo e viciniore: chi non ricorda, ad esempio, i numerosi suicidi di giovani avvenuti in molti anni nella zona, tra cui rampolli di famiglie “bene” (benestanti…) e di professionisti? Chi tra i Sanseverinesi e tra i residenti nella Valle dell’Irno non ha partecipato, almeno una volta, a fiaccolate contro la droga, sostanza multidenominata che ha ucciso – in maniera diretta o per le sue conseguenze – bellissimi ragazzi nel fiore dell’esistenza? Dobbiamo – allora – proprio trarre le somme che le istituzioni falliscono nella loro “mission” educativa? Ai posteri l’ardua risposta, diceva il poeta. Intanto sta di fatto che i poveri pazienti che giacciono abbandonati a se stessi e alla loro grave, invalidante ma “invisibile” problematica, vestiti con pigiami che sembrano stracci e che li rendono inquieti fantasmi tormentati e tormentosi, sono a volte maltrattati (nell’hinterland sanseverinese, nell’Irno, in Campania come altrove) dagli stessi infermieri e/o medici, non certo insensibili alle loro strane sofferenze, bensì troppo “abituati” a vederli stare in condizioni di interdizione, quasi di “sospensione” dalla vita reale. Senza voler accusare alcun personale medico o paramedico di “menefreghismo” (anche se non è la parola giusta, ma non ne abbiamo trovata una “migliore”), comunque sia queste vere e proprie “larve” spesso inchiodate alla crisalide del loro letto nei day hospital (anche nelle nostre zone) non ci risultano essere oggetto di servizi appropriati, forse per la crisi economica (e soprattutto culturale nonché di valori) che non permette di stanziare fondi adeguati alla cura e – in maniera più pregnante – alla guarigione (perché coi farmaci adatti si può uscire da questo tunnel) o forse perché i depressi sono un po’… i capri espiatori dell’ipocrisia di tutta la collettività, risultando mal raggiunti dai provvedimenti sanitari che – sul nostro territorio meridionale e irnino – languono come languono questi “piccoli” appesi ai lavaggi in stanze anguste e sovente con finestre che hanno le sbarre. Qui, in una umile stanza del Centro di Igiene Mentale, i “carcerati”, i “prigionieri” del mistero e dell’abisso delle loro menti aspettano la fine dei lavaggi e delle loro sofferenze, cercando l’ora d’aria; purtroppo se i medicinali prescritti non raggiungono l’efficacia della guarigione tanto invocata ed agognata molti di essi sono costretti a recarsi altrove con costi decisamente superiori, pur di ottenere un sia pur minimo spiraglio di luce e di serenità… ma resta sempre il fatto che non tutti possono farlo: non tutti hanno la possibilità di andare al Nord e all’estero, in altri centri e presso altre strutture sanitarie – molto più serie che al Sud – dove almeno rilasciano fatture e si dà attenzione anche alla privacy. E perciò: che fare? Dovranno i depressi del nostro entourage territoriale aspettare i “comodi” dei nostri governanti e politici che legiferino in materia di brevetti farmaceutici o che introducano norme e regolamenti che permettano una migliore assistenza sanitaria anche qui al Meridione, in Campania, nell’Irno e nell’Agro, a S. Severino? Dovranno poi, tali “soggetti” (e non “individui”) nel momento dell’acuzie, cercare di guarire con le misere strutture assistenziali che li dimenticano? Non c’è una risposta precisa, forte, decisa a tali problematiche complesse e certamente di ampio respiro, con connessioni che in un articolo di giornale – sebbene accorato – non possono essere illustrate ed esplicate nella loro interezza. Ci auguriamo – però – che, lanciando il nostro sasso verso ideali di giustizia e di assistenza nella sofferenza, non solo riguardante i depressi, ma anche altre persone colpite da patologie affini, abbiamo quantomeno cercato di smuovere le acque relativamente al discorso di diritti e doveri rispettivamente di malati e di personale sanitario. Medici sempre più amici e meno “camici bianchi”.