Capaccio: turismo intellettuale

Aurelio Di Matteo

In un precedente intervento espressi l’idea che l’identità di Capaccio-Paestum non è determinata solo dai templi e dall’area archeologica, ma da un ricco paesaggio rurale e da una connessa architettura unica nel suo genere. È un’identità che le deriva dalla storia dell’era cristiana e della modernità succeduta a quella classica e che se valorizzata e portata a evidenza può costituire l’elemento caratterizzante l’identità culturale e antropologica del territorio quale destinazione di turismo intellettuale integrato. La fruizione e la valorizzazione del patrimonio culturale, sia materiale sia immateriale, che vada a integrarsi con la consolidata attrazione dell’area archeologica, possono ben rappresentare l’insieme che tipizza ciò che ricerca il nuovo turista. La World Tourism Organization prevede per il prossimo futuro (2020), nell’ambito di una generale crescita del turismo, che quello intellettuale abbia il tasso molto elevato nei confronti di tutte le altre tipologie. A questa crescita contribuiranno in modo consistente l’accorciamento delle vacanze e l’aumento delle visite brevi, che sono finalizzate a un coinvolgimento intellettuale ed emotivo di esperienza integrata. Non è un caso che un’indagine articolata della Commissione europea ha rilevato che al 20% dei turisti motivati da ragioni intellettuali si aggiunge un 60% che durante i viaggi è interessato a scoprire e avere esperienze variamente culturali. Significativo è anche il fatto che per l’UE la cultura sia diventata una risorsa fondamentale per l’economia post-industriale e ne costituisca la preminente strategia di sviluppo. Da qui l’esigenza che la “socio-economic” di un territorio si può sviluppare solo attraverso la tutela e la valorizzazione dell’identità culturale di uno spazio geografico e antropologico, dove s’incontrano sedimentazioni archeologiche, caratterizzazioni rurali, tradizioni e presenze religiose, particolarità paesaggistiche, storia locale, cultura immateriale, enogastronomia e quant’altro sia tipico di un territorio. La storia vera di Capaccio, o con più esattezza della piana di Paestum, quella che le dà l’identità intellettualmente appetibile dal nuovo turista, non è espressa solo dai resti di Poseidonia-Paistos, quasi sempre guardati con stupore e con frettoloso sguardo, ma particolarmente dalle sedimentazioni e dalle testimonianze delle attività produttive, delle piccole strutture abitative, delle stalle, dei locali per trasformare i prodotti, dei canali, dei sistemi d’irrigazione, insomma da quell’insieme che costituisce il vissuto di un’epoca e di un’area antropologicamente caratterizzata. I resti del castello, il Santuario della Madonna del Granato con il forte simbolismo della sua liturgia, Gromola, come Spinazzo e Cafasso forse rappresentano la vera storia di Capaccio, quella che ancora oggi si può leggere nella struttura sociale che ne è derivata, oltre che nella memoria di molti attempati testimoni. Le tracce e il retaggio, ancora vivi nella struttura urbanistica e in quel ch resta dei tipici edifici rurali, dell’esaltante e tormentato cammino della Riforma agraria, forse sono gli aspetti che danno senso, identità e ragione di questa realtà territoriale che urbanisticamente e antropologicamente si può connotare come la “Città dei venti borghi”. Ormai è da considerare superata anche la centralità dell’enogastronomia e dell’attrattiva paesaggistica, sulle quali si continua a insistere, se non inserite in uno spazio turistico integrato, che dia occasioni di esperienza emotiva e intellettuale sostenuta da una serie di eventi collegati all’identità multiforme e tipicamente singolare di un territorio. Si tratta di recuperare alla significazione storica, culturale, sociale ed estetica una miriade di sedimentazioni e di memorie integrate in itinerari dimensionati su ogni tipologia di turisti. Presentare, dopo averla ridisegnata, recuperata e ammagliata culturalmente e strutturalmente con una rete di servizi durevoli e di itinerari esperenziali, come la Città dei venti borghi e non più solo come la città dei templi o della mozzarella di bufala, come uno spazio vitale da assaporare intellettualmente e non più come la cartolina dello stile dorico o la spiaggia per famiglie ricche di figliolanza da sottoporre a iodioterapia o a elioterapia. Queste forme di turismo stanno per finire o, come per Paestum, sottratte da destinazioni più attrattive e più appetibili per servizi e per costi. Bisogna convincersi che anche la Charta del turismo sostenibile (in verità qui a Paestum mai cominciato!) è ormai superata ed è lontana dalla nuova frontiera del turismo intellettuale. Per dirla con Juhani Harakka, un viaggio che non si iscrive in un itinerario di vita è solo un viaggio parallelo, convenzionale, globalizzato, un pseudo viaggio, un banale viaggio di consumo che non emoziona e finisce per non “muovere” più le persone. Il nuovo turismo, anche se implica consumo, non ha niente più a vedere con motivazioni consumistiche, soprattutto in tempo di crisi. Solo il viaggio intellettuale, che a sua volta è diverso dal tradizionale viaggio culturale, ha senso per il nuovo tipo di viaggiatore, perché esso è inconsumabile e sempre nuovo e stimolante. Il territorio pestano ha tutti i requisiti, le condizioni e gli attrattori per trasformarsi in un prodotto turistico post industriale e non globalizzato, per intraprendere la strada del experience-based tourism, sempre che ci sia una governance capace e disponibile a recuperare e valorizzare la pluralità di valori culturali, artistici, storici, ambientali di cui dispone, a creare un’offerta di servizi turistici oggi inesistente, a promuovere una convinta, diffusa e consapevole cultura dell’accoglienza.