“Orizzonti di Mezzanotte” di Ingenito 24 luglio 2011, giorni- 49

La morte viene dal mare Parte prima –Il figlio Ahmed decise di agire solo se ce ne fosse stato bisogno. Estrasse dallo zaino il cannocchiale a raggi infrarossi, orientandolo in direzione della lampada. Individuò un giovane protetto da un impermeabile giallo da pescatore, di quelli di plastica solida sui quali l’acqua piovana rimbalza senza penetrare. Era evidente che quell’uomo guardasse in direzione del mare, tenendo la pila ben puntata verso un gruppo di barche ancorate lì davanti, a non più di una cinquantina di metri, sbattute dalla furia del vento e delle acque. Un paio di quelle piccole imbarcazioni galleggiavano capovolte, altre erano affondate. Ahmed si acquattò sulla sabbia, dirigendosi nuovamente verso la cabina, dopo avere lasciato lo zaino a terra. Fu una questione di secondi. In quello stesso istante, infatti, il giovane si girò verso la montagna, orientando inavvertitamente il fascio di luce e lasciando che si riverberasse nella direzione del naufrago. Il caso volle che inquadrasse soltanto lo zaino. Distava non più di trenta metri da lui. Pensò subito al mare, alla sua furia selvaggia, ad uno dei suoi tanti rigurgiti. Incuriosito, si avvicinò lentamente. Dal lato opposto, a non più di cinquanta metri di distanza, il siriano osservò la scena preoccupato. Se quel ficcanaso avesse aperto il grosso zaino avrebbe rischiato di compromettere seriamente la sua missione. Doveva agire e subito. Non poteva attendere oltre. Si acquattò di nuovo sulla sabbia, muovendosi, poi, in avanti, lentamente, alle spalle dello sconosciuto. Il mare e i suoi complici, gli elementi scatenati e ostili della natura, agirono in perfetta simbiosi tra loro, agevolando l’operato di quell’essere tanto infido quanto determinato. Fu una questione di attimi. Veloce più del fulmine, Ahmed abbrancò la vittima alle spalle mentre, china sullo zaino, era intenta a sfilarne la cerniera. Il ragazzo si voltò di scatto, insospettito dal fruscio provocato dal movimento del braccio dell’assassino. Riuscì solo a intravedere fugacemente il volto di quell’uomo spuntato dal nulla. Il terrore fece appena in tempo a stamparglisi sul viso. Ahmed l’afferrò per la gola, stringendola con il braccio destro e attirandolo a sé con tutta la forza bruta di cui era capace. Nonostante ciò, non riuscì a strozzarlo subito. Il poveraccio si afflosciò sulla sabbia stordito, ma ancora vivo. Era un ragazzo forte, capace di morire solo a tradimento. Il siriano non si scompose. Si mise a cavalcioni su di lui, si chinò in avanti e, con le due mani protette dai guanti, strinse impietosamente il collo della vittima, fino a fargli quasi schizzare gli occhi dalle orbite. Una lama di rasoio affilata e sottile materializzatasi tra le sue mani d’improvviso completò l’opera. Il corpo atletico del giovane sussultò più volte, inarcandosi dal basso verso l’alto, con il capo rivolto all’indietro. Le mani e le gambe si dimenarono all’impazzata, riuscendo a graffiare l’assassino all’altezza dell’arcata sopraccigliare destra, mentre il sangue sgorgava a catinelle, schizzando dappertutto. La stretta selvaggia si allentò, proporzionalmente al venire meno delle sue forze. Lo sguardo spietato di Ahmed divenne rosso fuoco. Negli occhi iniettati di sangue un furore incontrollato guidò il demone che era in lui, nei lunghi, interminabili momenti di terrore e di morte che seguirono. Insensibile al dolore della vittima inerme, ai suoi ultimi cruenti spasimi, continuò a stringere e a stringere senza alcuna pietà. Fino a quando la pesante massa corporea e inanimata non si lasciò andare per sempre, battendo pesantemente sulla schiena e abbandonando sulla sabbia gelida un essere ormai inerte e senza vita. Era fatta. Non ci fu neppure bisogno di accertarsi che fosse morto. Il siriano si guardò intorno. Bisognava solo disfarsi del cadavere senza lasciare tracce. Con il braccio sinistro si asciugò dalla fronte le goccioline di sudore miste a pioggia. Poi lo trascinò verso le onde, che lo risospinsero a riva. Non si perse d’animo. Provò e riprovò, fino a quando il misero giovane non fu risucchiato definitivamente al largo. Il mare l’avrebbe restituito prima o poi. Ma dove e quando sarebbe stato impossibile prevederlo. L’orologio segnava già le tre. La tempesta infuriava. Lampi terribili illuminavano l’orizzonte. Le loro spire irregolari e violette zigzagarono per pochi interminabili istanti, prima di inabissarsi tra le onde impazzite della notte. Solo allora si spensero, ritraendosi come per incanto, lasciando che un buio cieco fungesse da cerniera protettiva e invisibile di quella linea infinita che unisce lontano, fin dove arriva lo sguardo, mare e cielo, cielo e mare. Nella notte più profonda, Ahmed cominciò ad intravedere i suoi orizzonti. Brevi, rari, repentini, illuminati da una fulminea luce, spettrale e sinistra, sufficiente a guidarne la mano per le immonde azioni a cui si era votato, nel convincimento per lui certo, in realtà apparente e contraddittorio, di una pura, incontaminata, inattaccabile volontà divina. Era questa la natura preferita dal demone. Lei, l’unica vera alleata e interprete dei suoi desideri, dei suoi bisogni, dei suoi disegni; metafora esistenziale di chi, alleatosi da tempo con gli elementi sinistri del potere e della morte, aveva sostituito la luce con le tenebre, la trasparenza con l’ombra, il bene con il male. Nella danza furiosa della natura intrecciatasi con l’azione perversa dell’uomo, i tuoni terrificanti e infernali, che puntualmente seguivano subito dopo, tormentavano il sonno e i sogni delle tranquille genti della costa. Al siriano non restò che tornare alla cabina e rimanere all’erta sotto la pedana, in attesa che la furia del vento e dei marosi si attenuasse al più presto, per tentare, poi, una via di fuga. Nel giro di poche ore, infatti, la situazione avrebbe potuto complicarsi, se non fosse riuscito a sgattaiolare, in un modo o nell’altro, dalla prigione in cui si era trasformata quella spiaggia senza accesso e senza via di fuga. Solo allora Ahmed si ricordò della nave. Voltò lo sguardo in direzione della Jamila, che giaceva leggermente inclinata su di un fianco, a poche centinaia di metri di distanza. La guardò a lungo, individuando in lei una mostruosa sagoma nera costituita da una parete buia di ferro e d’acciaio tormentata dai marosi, nei cui confronti quella inutile carcassa si frapponeva ormai come insolente, involontaria, artificiale barriera. (…)