Uno, due, tre….un po’ di tempo per riflettere

Nella calma della sera,si sente solo il rumore dell’acqua che lentamente scende verso valle. Il ruscello, sotto casa,da anni segue sempre la medesima strada. Quante persone sono venute a prendere la sabbia, lavare i panni o pescare qualche pesce. Ora, da un po’ di tempo, nessuno viene più a fargli visita. Ormai la gente viene nella case solo per mangiare e dormire. Poi vanno da altre parti, sia per lavoro che per conoscere il mondo. Ma se avessero tempo di fermarsi ancora una volta,vicino al ruscello,ascoltando la sua voce, i ricordi dei tempi passati ritornerebbero ancora vivi alla memoria. Un giorno ho deciso di scendere giù, verso il ruscello. Mi sono seduto su una pietra e mi sono messo ad ascoltare. Una trota era uscita da sotto un sasso, facendo attenzione. Pensava che fossi un pescatore. Poi, visto che non avevo niente in mano, tranne il quaderno e la biro, cominciò a guardarmi molto incuriosita. Voleva parlare. Ma si sa, i pesci non parlano. O meglio, siamo noi che non li capiamo. In ogni caso,seguendo i movimenti della sua bocca, comincio a capire quello che mi vuole dire. Il suo bisnonno le raccontava sempre che, ai suoi tempi, nel ruscello c’erano molte trote e tanti altri pesci. L’acqua era pulita ed era un piacere nuotare dalla mattina alla sera, Il cibo era abbondante. E anche se qualcuno finiva nella rete dei pescatori…pazienza! L’uomo rispettava il loro ambiente e non vi gettava tante cose. L’acqua continuava a scendere verso valle. E ogni tanto,qualche pesce di montagna portava le notizie della sorgente. Forse da qui è nata la frase che “per sapere le cose…bisogna andare alla sorgente”! Erano notizie di panorami stupendi,del sole che giocava con i suoi raggi tra le gocce d’acqua. D’inverno si adagiava sulla neve e alla sera la luna e le stelle illuminavano la sorgente, dove le mucche, tornando all’alpeggio, bevevano un ultimo sorso d’acqua. “Ricordi di tempi passati” mi diceva la trota. “Ora nessuno viene più qui tra noi. Sono contenta che almeno tu non ci abbandoni, che non lasci che il passato se ne vada via per sempre”. Intingo le mie mani nell’acqua. Volevo accarezzare la trota, ma lei se la fila via sotto il masso per riposarsi dopo la lunga chiacchierata. Là vicino vedo ancora dei segni di qualcuno che aveva lavorato tanto tempo fa. La mia amica trota fa capolino dalla sua pietra e mi dice che qui veniva la gente a raccogliere la sabbia per costruire le case. Qualcuno,in particolare , che io conoscevo bene,la raccoglieva tutti i giorni per fare i muretti nel giardino. Ra una sabbia semplice che veniva dalla montagna e aveva il profumo dei fiori. Tra i suoi granelli, ce ne era sempre qualcuno che luccicava. Forse delle scaglie d’oro o forse un piccolo concentrato di sole? Con la pala, si affondava nell’acqua e poi, con le gocce che cadevano da tutte le parti,la sabbia veniva depositata sulla riva. Il giorno dopo,con il secchio si andava a prenderla per mescolarla con il cemento e fare i muretti a terrazza del giardino. Costava fatica risalire il prato, ma lo si faceva piano piano,sapendo di fare qualcosa di buono. Quando il ruscello, dopo una grossa pioggia, si ingrossava, la sabbia se ne fuggiva a valle. Bisognava aspettare il ritorno del sole e il canto degli uccelli per ritornare a scavare la sabbia. Era la natura che dava i tempi all’uomo che voleva sempre comandare tutto. “I suoi tempi non sono i nostri tempi” diceva la trota. E’ vero. Con un po’ di rispetto e di pazienza,anche la natura ci dà una mano per vivere meglio. La mia amica trota non era ancora convinta che io non fossi un pescatore. Anche se usciva spesso dal riparo della pietra, era molto diffidente. Le chiedo il perché e allora ricomincia a raccontare. Ai tempi di suo nonno,diceva che la gente non poteva permettersi il pesce o la carne tutti i giorni. E quindi…andava a servirsi,dove c’era del cibo abbondante. Al mattino presto o verso il tramonto del sole,diverse persone venivano al ruscello per pescare. Avevano scelto quei momenti,perché i pesci non erano molto svegli e si lasciavano prendere facilmente. Ma non tutti! Il nonno le raccontava la storia di una giovane trota che faceva impazzire i pescatori. Avevano cercato in tutti i modi di prenderla. Ma lei,sul più bello,guizzava via,lasciandoli a bocca aperta. Un giorno, forse una domenica sera, vede arrivare tante persone. Avevano sentito parlare di quella trota. I più esperti tra di loro giuravano che l’avrebbero presa e  poi tutto si sarebbe concluso con una bella mangiata. Tutti scommettevano su chi sarebbe riuscito a vincerla. Nessuno naturalmente parteggiava per la trota! Ma lei,piano piano,esce dall’acqua. Guarda in faccia i pescatori che stanno per prenderla. Poi, di colpo, sguscia via, inseguita da tutti. Nella foga della corsa,si spingono,si urtano,cadono in acqua. E la trota, dopo un po’esce fuori a godersi lo spettacolo. Fa le boccacce a quei poveretti e se ne fila via ancora più veloce di prima. Rimango un attimo in silenzio. Poi chiedo alla trota se ha conosciuto questo esemplare speciale. “Ma certo” mi risponde “Era mio nonno!”. Ero ancora a bocca aperta,ascoltando le avventure di nonno trota, quando vedo arrivare una signora anziana con un secchiello, pieno di panni, viene al ruscello. Mi chiedevo il perché, visto che oggi molti si servono della lavatrice. La signora,silenziosamente,posa il suo secchiello e si mette in ginocchio. Con la mano fa muovere l’acqua e dopo averli ben insaponati, tuffa i vestiti nello specchio d’acqua. Ritmicamente, li strizza, facendo colare il sapone. Che buon profumo di bucato! Quando, d’improvviso, intona un canto, E’ l’inno della Madonna del Buon Consiglio che anch’io tante volte con i genitori ho cantato. Sembrava una melodia che veniva da lontano, da qualche parte del cielo, mentre lei continuava a lavare. La mia amica trota si mise a starnutire, perché il sapone le faceva solletico al naso. Guardava lei e guardava me. Non diceva niente, ma si capiva che aveva voglia di fare tante domande. Così io gioco d’anticipo e chiedo alla signora come mai era venuta al ruscello. Mi guarda divertita con un sorriso un po’ stanco, Poi mi dice che venire al ruscello le ricorda tante cose della sua vita passata. In più, ha tempo di pensare e di prepararsi al viaggio di ritorno nel cuore di Dio. Ormai aveva finito di lavare. Un’ultima strizzata e i panni erano ritornati belli puliti nel secchiello. Mi offro di accompagnarla a casa. Mi ringrazia,ma mi dice che preferisce farlo da sola, così non perde l’abitudine. E  come era venuta, cosi svanisce nel nulla. Mi guardo intorno e vedo che il sapone si è trasformato per qualche istante in un grande cuore profumato. Mi diceva mio padre che da piccolo si alza presto per andare a scuola,a piedi,nella grande città. Con ogni tempo,pioggia e neve compresa, i ragazzi del paese andavano per imparare a non sentirsi inferiori a nessuno. Spesso capitava che fossero tra i migliori, suscitando l’invidia dei “signorini” della città. A quei tempi, i maestri erano molto esigenti e avevano dei sistemi,diciamo, un po’ duretti. Bisognava studiare. Tornando a casa,si continuava a dare una mano ai genitori. La cartella era piena di quaderni e di qualche libro. In un angolo c’era un pezzo di pane nero (di segala) con qualcosa a fare da companatico. Tutto questo serviva per calmare i morsi della fame. Ma la voglia di studiare era tanta e i sacrifici passavano in secondo piano. Pensando alla situazione d’oggi, in cui i bambini vengono accompagnati fin dentro la scuola, viene da chiedersi chi era il più forte. Queste difficoltà li hanno convinti che le cose si guadagnano,pagando di persona. Anche loro avevano dei sogni e dei progetti da realizzare. Ne parlavano, andando su e giù in mezzo ai boschi. Qualche frutto dagli alberi finiva nelle loro cartelle, facendo attenzione ai proprietari, per dare un po’ di gusto al cibo quotidiano. Non era un rubare, ma un prendere qualcosa per crescere. Ci si aiutava come si poteva! Terminate le scuole elementari,si pensava al futuro. Chi andava come apprendista per imparare un mestiere (sarto,cuoco, fornaio, falegname…), chi invece aiutava la famiglia nei lavori quotidiani. Ma i ricordi di quelle camminate insieme per andare a scuola, rimaneva nella loro memoria. “Ma lo sai che quei ragazzi che andavano a scuola” mi dice l’amica trota “in un angolo del ruscello hanno fatto una piccola diga per fermare l’acqua, per poi potersi tuffare. Il mare era lontano e allora se lo sono fatto uno tutto per loro”. Mi sembra ancora di sentire i tuffi e le risate. A  quel tempo bastava poco per divertirsi. Un tuffo in acqua,qualche scherzo e poi di nuovo a casa a lavorare. Ogni tanto bisognava aggiustare la diga. I pescatori non erano contenti,perché la loro allegria spaventava i pesci. Ma quando le acque tornavano calme,anche loro potevano approfittare per pescare qualche trota. Insomma,anche se brontolavano,potevano essere contenti. I ragazzi non potevano andare sempre al ruscello. D’inverno inventavano altri giochi. Quando la neve si faceva più consistente e si trasformava in ghiaccio, ci si divertiva con la slitta o i pattini, fatti artigianalmente. Magari,andando a scuola,si scivolava anche con la cartella. Poveri pantaloni! Ma si scrutava il cielo, in attesa della primavera e dell’estate per ritornare a rinfrescarsi, a tuffarsi così come mamma e papà li avevano fatti. Momenti di felicità per fare una pausa nella dura vita di tutti i giorni. Poi si stendevano al sole,guardando le nuvole per distinguere i disegni che il vento faceva nel cielo. Chissà che cosa riservava loro il futuro! “Ma li hai mai visti giocare quei ragazzi?” chiedo alla mia amica trota. “Ogni giorno li sentivo gridare e ridere, Facevano dei giochi semplici, ma belli. Se vuoi, te ne descrivo qualcuno” mi risponde. E così mi fa entrare in un mondo meraviglioso,dove ci si divertiva con poco e si era contenti. Per quello che loro chiamavano “lippa”, bastava poco:un bastone ben tornito e un pezzetto di legno con le due punte. Si batteva su una delle due e poi lo si riprendeva al volo. Vinceva chi lo mandava più lontano. Invece un altro che entusiasmava e che è cambiato con il tempo,era il lancio delle monete contro un muro. Poi sostituite dalle figurine dei calciatori. Perdevano la testa per le biglie di vetro. Bastava poco per fare la pista con le curve rialzate,i tunnel. Si continuava fino a stancarsi. Chi poi non aveva proprio niente, recuperava un cerchione di bicicletta e lo faceva andare avanti e indietro con un bastone,sognando chissà che cosa. Le bambine,oltre alle bambole, si divertivano con la “settimana”, saltando nelle caselle, dopo aver lanciato la pietra. Anch’io ricordo con nostalgia questi giochi. Uno in particolare, rutto del sacrificio dei miei genitori:il cavallo a dondolo. Quanti sogni. Magari pensavo di essere un cow boy che inseguiva gli indiani. Poi,crescendo,si cominciava ad andare in bicicletta, o meglio, sul triciclo. Ora ci sono i giochi elettronici e ci si diverte per qualche istante. A quei tempi,i giochi erano a misura di bambino e facevano compagnia, come qualcuno di famiglia.”Sai,da quel ponte sono passate tante persone che hanno scelto di andare lontano a lavorare” mi diceva l’amica trota. “Lavorare:dove e perché?” chiedo io. “A quei tempi (e anche oggi) “mi risponde “non c’era lavoro per tutti ed erano tante le bocche da sfamare. Così, dopo la scuola,qualcuno ha cominciato ad andare lontano (Francia, Svizzera, Belgio…) per fare il muratore, l’imbianchino, il falegname,lo spazzacamino, il cuoco…Si andava a piedi o con il treno nei vagoni di terza classe (quelli con i sedili di legno). Si dava l’addio al paese, ai monti, alla chiesa,al ruscello. Si ascoltava ancora una volta il suono delle campane. E poi, con i ricordi nel cuore, si cominciava il grande viaggio. Si sapeva che c’erano dei paesani che li aspettavano, ma non si conosceva quale sarebbe stata l’accoglienza. Sacrifici, scherni, incomprensioni e tanta fame e nostalgia. Poi, chi poteva, il giorno della festa del paese,nel mese di agosto, tornava a rivedere le sue montagne. Si metteva il vestito buono e, dopo la messa cantata,ci si ritrovava sotto il pergolato per bere un bicchiere di quello buono con qualche fetta di torta di pane. E allora si cominciava a raccontare la vita,le avventure, gli amori e le tristezze,le lunghe notti passate da soli. I ragazzi più piccoli ascoltavano e bevevano le parole di chi era stato all’estero,pensando a quando sarebbe toccata a loro. Poi le feste finivano e bisognava ritornare lontano,con la speranza di fare un po’ di soldi e di poter finalmente un giorno stabilirsi nel proprio paese e avere una famiglia,come Dio comanda. Quanti sono partiti con le speranze e quanto pochi sono ritornati. I loro volti sono ancora là nelle foto ingiallite dal tempo. E’ vero che si lavorava tutti i giorni,ma per fortuna c’erano le feste per riposare il corpo e lo spirito. La più importante era quella di agosto. Per tutti gli emigranti,diventava il giorno del ritorno a casa. Un susseguirsi di arrivi,di saluti,di notizie rendeva il paese animato. Le donne preparavano dei pranzi speciali. Si gustavano i sapori di una volta. Dopo la messa solenne,c’era il pranzo. Al pomeriggio, la processione per le vie del paese con la Banda e l’incanto dell’offerta (torte, salami, formaggi,vino, uova…). Poi ci si divideva nelle varie case, all’osteria o sotto le piante per continuare l’amicizia e le chiacchiere. Le altre feste erano un po’ in tono minore, ma partecipate. Il Natale, sotto la neve, con i canti tradizionali e i doni semplici, segno dell’amore dei genitori per i figli. Carnevale,in cui ci si lasciava un po’ andare. Dopo averlo vissuto nel paese, si andava a vedere la sfilata dei carri in città. E il mercoledì (primo giorno di quaresima) c’era una strana processione di gente vestita di nero, con un cappello a cilindro e un mestolo che pendeva dal collo. Serviva per bere il vino in ogni luogo della città. Era un modo un po’ strano, quasi di contestazione,per incominciare la quaresima. L’ultima festa,una specie di scampagnata,si viveva sulle colline intorno al paese,dove nel tempo c’era un convento di frati cappuccini. Si andava tutti insieme,banda musicale compresa, per farsi una bella merenda. Altri tempi, in cui ci si divertiva con poco,ma forse si era più felici. “Li vedi quei papà che vengono a lavarsi al ruscello?” mi dice la trota “Hanno lavorato tutto il giorno e ora vogliono rinfrescarsi un po’”. “Perché non vanno a casa propria? Hanno la doccia e il bagno?”dico io. “Sì, è vero” mi risponde l’amica “Ma credo che vogliano ricordarsi di quando da piccoli venivano insieme. Erano altri tempi,un modo per stare insieme. E poi,sai, il profumo di quel sapone,di quelle scaglie che rimanevano tra le rocce; un qualcosa che non si trova più”. Pensavo tra me e me. Come cambiano le cose. L pubblicità ci fa entrare in altri mondi,lontani da noi. Vuole che noi paghiamo per averli e per, dicono loro, essere felici. Forse abbiamo perso qualcosa per strada. Forse non sappiamo più che cosa è la vera felicità e cerchiamo altre cose che non ci dicono più niente. Oggi siamo nella civiltà del consumo, dell’usa e getta. Si aspira per qualche istante,poi si mette da parte. Non c’è più il gusto di assaporare le cose,di dare la giusta importanza a ciò che abbiamo. Eppure, basterebbe poco. Con un po’ di attenzione, dentro e fuori di noi,si vedrebbero delle cose che ci riempirebbero di felicità.”A proposito, io vedo  che il tuo e il mio sguardo vanno sempre a quel ponte che attraversa il ruscello. Cosa c’è di importante?” chiedo alla mia amica trota. “Allora, proprio non ti ricordi” mi risponde “Quante volte ci sei passato,accompagnando le persone che andavano a riposarsi dall’altra parte. Lo hai fatto anche con tuo padre e tua madre”. E’ vero. Ogni volta che ritorno al paese, passo quel ponticello e vado a fare quattro chiacchiere con gli abitanti di quel posto. Oltre a papà e mamma, ritrovo tanti volti di persone con cui ho condiviso decine di anni di vita. Sono lì, uno accanto all’altro, quasi che aspettassero la chiamata per partire in un luogo più bello. O forse sono già in viaggio…Non lo so, ma guardando le foto,mi viene tanta voglia di dire loro grazie per tutto quello che mi hanno donato. Anch’io credo di aver fatto qualcosa per loro. A dire la verità, ho già il mio posto bel e pronto. Non è che abbia fretta. Ma mi ricorda che non devo buttare via l’esperienza di vita di chi l’ha condivisa con me. E’ importante. E’ un dono prezioso. Ormai era sera. La mia amica trota se ne era andata a riposare sotto la sua pietra. E anch’io, dopo tanti ricordi,mi fermo un po’ e chiudo gli occhi nell’attesa del sorgere del sole.

Padre Oliviero Ferro, missionario saveriano    (scritto a Plello di Borgosesia-Vc  dal 1 al 9 luglio 2011)