Salerno: “Il Bisbetico contaminato” al laboratorio De Sanctis

 Il Bisbetico contaminato, libero adattamento del Dyskolos di Menandro, nasce all’interno di una pluriennale esperienza di laboratorio teatrale del  Liceo De Sanctis. L’idea su cui il laboratorio ha fondato la propria attività è quella di trattare i drammi greci e latini come una materia pulsante e viva, che chiede di essere riplasmata a ogni rilettura, in nome di una fedeltà allo spirito dei drammaturghi antichi (che fondavano il loro lavoro su una risemantizzazione e rielaborazione critica di materiali preesistenti) più che alla lettera delle loro opere. Perciò, i testi di volta in volta prescelti sono stati sottoposti a contaminazioni e a interventi di adattamento finalizzati ad amplificarne le risonanze con il nostro tempo. Gli stessi allievi coinvolti nel progetto – circa trenta ragazzi, fra attori e addetti alla scenografia – hanno fornito contributi decisivi a tale operazione, intervenendo direttamente nella preparazione del copione, che peraltro non è mai stato ricavato dalle traduzioni correnti, ma si è sempre basato sul lungo lavoro di analisi (anche filologica) e di traduzione condotto da un esperto interno. Il titolo dato al lavoro di quest’anno, Il bisbetico contaminato, allude non soltanto – come emerge dal prologo – alla pratica della contaminazione dei classici che il laboratorio persegue come modalità di approccio ai drammi antichi, ma anche al taglio interpretativo che si è voluto assegnare all’opera menandrea. Infatti, del suo protagonista, Cnemone, prototipo di quella figura di misantropo che ha avuto una così larga fortuna nel teatro occidentale, si è messa in risalto l’ossessione per il pericolo di essere in qualche modo contaminato dal contatto con il genere umano, cogliendo in tale atteggiamento un’ inderogabile esigenza interiore di salvaguardare un proprio ideale di purezza, estraneo alle umane miserie e debolezze. Com’è noto, però, nell’opera menandrea questo ideale d’autàrcheia o autosufficienza verrà indebolito dal verificarsi di un evento imprevisto, che costringerà l’anziano contadino ad ammettere di avere bisogno degli altri. Ma se in Menandro tale ‘conversione’ non è perfettamente compiuta, dal momento che Cnemone, pur mostrandosi al termine della vicenda più disponibile e partecipe, non rinuncerà al suo sdegnoso rifiuto degli aspetti più frivoli della vita sociale, come la baldoria e le gozzoviglie delle feste nuziali, nella nostra riscrittura il vecchio contadino sarà davvero, per effetto del trauma subito, ‘contaminato’, anche se solo temporaneamente, dalle forme correnti di socialità, e addirittura parteciperà alle danze vorticose della festa; a riportarlo alla sua natura altera e sdegnosa, ‘salvando’ lui dalla contaminazione o normalizzazione, ma facendo riprecipitare tutti gli altri in un incubo, sarà solo un altro evento imprevedibile e accidentale, inserito ex novo nel testo. Ne discende un rafforzamento del ruolo della tyche nella vicenda, oltre che l’amara constatazione dei limiti della volontà e dell’arbitrio umano. Nel lavoro realizzato il comico è stato riprodotto nelle tre forme canoniche (di carattere, di situazione, di parola) presenti nell’opera menandrea, ma in molti casi è stato accentuato da interventi ispirati ai rimaneggiamenti che alcuni poeti latini hanno quasi di necessità operato nei confronti dei modelli greci, allo scopo di fare della commedia un’occasione di evasione e di solleticante esercizio intellettuale più che di riflessione morale. Perciò, il comico di carattere  di un personaggio come Cnemone è stato sottoposto ad accentuazioni parossistiche: i momenti in cui il suo furor tocca l’acme, ad esempio, sono segnalati dal sopraggiungere di ‘attacchi’ di ‘polilalia’, che, nel sottolineare la difficoltà del personaggio a entrare in un rapporto di comunicazione costruttiva con il prossimo, costituiscono anche il pretesto per agganciare Cnemone, attraverso una sorta di surreali ‘interferenze’ letterarie, al tipo del misantropo di Shakespeare e di Molière. Altri ‘caratteri’ comici, poi, sono stati addirittura introdotti ex novo nella commedia, ma sempre nello spirito e con le modalità di un esperimento culturale, che non a caso si fonda su un’attenta analisi del rapporto di Menandro con il maestro Teofrasto. L’autore dei Caratteri, infatti, oltre ad aver offerto ricchi spunti per l’accentuazione caricaturale di personaggi come la madre di Sostrato, bizzoca e superstiziosa fino all’inverosimile, ha costituito la premessa per la creazione di nuovi personaggi (come il parassita Flebotomo, la scorbutica Nitro messa accanto a ‘Glicerina’ – la dolce fanciulla di cui è innamorato Sostrato – o le numerose figure di personaggi minori maldicenti, cialtroni, millantatori, storditi o importuni). Inoltre, in questo lavoro il comico di carattere s’intreccia al comico di parola attraverso l’attribuzione di intonazioni dialettali o di tratti gergali alla dimensione linguistica dei vari personaggi, mentre quello di situazione è rafforzato  da ‘deragliamenti’ metateatrali creati ex novo. Sono infatti  introdotti di frequente gli interventi dei tecnici dello staff, che correggono le leggerezze e le distrazioni di attori alle prime armi o introducono ‘effetti speciali’ che di speciale hanno solo la loro rudimentale artigianalità: ne sono un esempio i fulmini, che, evocati dai vari personaggi come innocuo intercalare (che gli dei mi/ti fulminino), si materializzano sotto forma di sagome di cartone goffamente esibite al pubblico dai suddetti tecnici. Ma la presenza costante di Menandro in scena, come autore-spettatore che disapprova radicalmente le alterazioni prodotte da teatrantucoli alle prime armi e affetti da manie di contaminazione, è forse l’elemento più significativo del lavoro, che vuole evocare – ma sempre in toni improntati al registro leggero di un divertissement – esperienze di teatro contemporaneo come quello di Kantor o l’idea pirandelliana tanto di una sovrapposizione reciproca di realtà e finzione quanto di una problematicità dei compiti e delle funzioni delle diverse figure che concorrono alla realizzazione di una drammatizzazione. Il fatto poi che il prologo dell’opera sia affidato allo stesso autore, che nel segnalarne al pubblico le innovazioni ‘arbitrarie’ – come la presenza di un coro costituito dalle Ninfe – se ne dissocia completamente, pone l’accento sulla distanza che corre fra l’interpretazione data al dramma e le intenzioni del suo autore: egli si sente minacciato dalle contaminazioni letterarie dei suoi interpreti non meno di quanto il protagonista della sua opera si senta minacciato dal contatto con le miserie umane. Si arriva pertanto a una sorta di identificazione del protagonista con l’autore, quel poeta della filantropia, compendiata nella sentenza com’è amabile l’uomo quando è uomo, che finisce per rivelare il suo lato oscuro e ancora inesplorato: un’ inconfessabile dyskolìa che è forse la ragione del suo essersi accostato – e in giovanissima età – a un tipo umano così distante dal suo orizzonte concettuale, ma la cui tentazione sembra affiorare, non di rado e non senza un’inquietante carica seduttiva, in quelle gnomai monostichoi che per tanto tempo hanno costituito l’unica fonte di conoscenza diretta della poesia di Menandro. Sobria ed essenziale la scelta delle musiche: sottolineature di sirtaki, dal ritmo lento o veloce a seconda delle scene, costituiscono l’unico commento musicale alla vicenda, che con questa danza tradizionale sembra avere un rapporto strettissimo, anche per la sua ambientazione agreste e per lo spaccato di antica civiltà contadina che offre.