Il giusto processo

Angelo Cennamo

Il consiglio dei ministri ha approvato il disegno di legge che dovrebbe – il condizionale è d’obbligo – modificare il titolo IV della costituzione e realizzare il cosiddetto giusto processo. La riforma “epocale” varata dal governo comporta, in primo luogo, la separazione delle carriere dei magistrati e lo sdoppiamento del csm. Quello della equiparazione tra accusa e difesa rispetto alla superiorità dell’organo giudicante è un vecchio pallino del centro destra; Berlusconi ne fece uno dei suoi cavalli di battaglia già nel 1994, ma per una serie di circostanze sfavorevoli, che oggi vengono ricondotte all’ostruzionismo di Fini, non se ne fece più nulla. Che Fini, insieme con Casini, sia particolarmente dotato nel rallentare il corso delle riforme non è lontano dal vero. Ma non si può negare che la perdurante intangibilità della materia sia attribuibile anche, o soprattutto, allo scontro in atto da oltre un quindicennio tra Berlusconi e le toghe più “politicizzate”, che ha visto sicuramente il premier al centro di una persecuzione giudiziaria senza precedenti, ma che ha pure esposto giudici e pm a giudizi, da parte dello stesso Berlusconi, non sempre lusinghieri. La rincorsa, da una parte, verso l’agognata immunità, puntellata da una serie di interventi pasticciati e rispediti al mittente dalla consulta, e i toni infuocati del dibattito, dall’altra, non hanno di certo contribuito ad agevolare il cambiamento. Ma non è mai troppo tardi. Forse Berlusconi non ha tutti i torti quando dice che senza i finiani la sua maggioranza è diventata più compatta ed efficiente. Tant’è  che le riforme dell’università e del federalismo sono state approvate solo negli ultimi mesi, con il presidente della camera lontano dai giochi. Il ritmo è diventato addirittura incalzante, e neppure il Rubygate con gli altri processi pendenti sembrano ostacolare il fiume riformista che sta inondando il centro destra. Quella della giustizia può allora rappresentare il coronamento di una legislatura complicata ma degna di nota sotto molti aspetti. Dicevamo della separazione delle carriere e dello sdoppiamento del csm. Di novità, però, ce ne sono anche altre. L’inappellabilità delle sentenze di assoluzione, ad esempio, costituisce, con la separazione dei pm dai giudici, un secondo tassello verso il giusto processo, più garantista e meno persecutorio. E poi ancora l’introduzione della responsabilità dei magistrati, che saranno chiamati a rispondere in proprio del loro operato, dopo essere stati giudicati da una corte suprema ad hoc. E la rimodulazione dell’obbligatorietà dell’azione penale, che non scompare, come qualcuno sostiene erroneamente, ma viene vincolata a criteri di volta in volta stabiliti dal parlamento. Questo per impedire che i pm possano lasciarsi tentare da taluni fascicoli piuttosto che da altri. E’ bene, infatti,  sfatare il mito dell’obbligatorietà, che è enunciata dalla costituzione come principio inderogabile, ma che di fatto è rimessa alla discrezionalità delle procure. Servirà tutto questo a risollevare le sorti della nostra giustizia? Solo in parte. La riforma non va ad intaccare i tempi dei processi, civili e penali, e non servirà a smaltire l’enorme contenzioso accumulatosi nel corso degli anni. Ma i processi prima ancora di essere brevi, è bene che siano giusti. Sotto questo aspetto, il ddl presentato dal governo dà un’impronta liberale e garantista ad una struttura, quella giudiziaria, che troppe volte ha mostrato il peggio di sè. Ora però tocca al parlamento e la battaglia si preannuncia molto dura, forse impossibile.