Salerno: Ruggi, lettera aperta a Bianchi

Aldo Bianchini

Ho letto su questo giornale lo sfogo della sig.ra Giuseppina G. contro la cattiva organizzazione del “pronto soccorso” dell’ospedale San Giovanni di Dio e Ruggi d’Aragona. Il fatto è accaduto lunedì 17 gennaio ed ha avuto la sua punta di massima confusione nel pomeriggio. Per alcune ore sono stato presente in quel pronto soccorso in quanto ero li per aver accompagnato un mio caro amico a causa di un malore momentaneo. Mi corre innanzitutto l’obbligo di testimoniare la veridicità dei fatti denunciati da Giuseppina ma mi sento altrettanto obbligato a ricordare alla stessa Giuseppina che i problemi non si risolvono gridando a squarciagola e minacciando (fortunatamente sempre a parole) medici, infermieri e personale di vigilanza. Detto questo devo subito dire che quando si parla del pronto soccorso del Ruggi bisogna stare attenti a non far passare quanto di scabroso accaduto lunedì pomeriggio per un fatto casuale dovuto a concomitanti ed inaspettate circostanze. Non è affatto così. Come dicevo sono rimasto per alcune ore nei locali del p.s. e non lasciandomi prendere dalle grida (anche giuste, per carità!!) di Giuseppina ho cercato di osservare e di registrare mentalmente tutto quello che riuscivo a vedere. Ne ho ricavato la ferma sensazione che il cattivo funzionamento della struttura non è un fatto casuale ma assolutamente strutturale ben noto, verosimilmente, ai vertici dell’azienda ospedaliera, Attilio Bianchi compreso. In una città europea, come quella sognata e propagandata dal sindaco De Luca, il problema sarebbe già stato risolto da tempo nella maniera più semplice: con i lanciafiamme. La mia non è un’affermazione forte, è semplicemente la presa d’atto di una situazione non più tollerabile in quanto dal punto di vista strutturale non c’è più niente da salvare in quei locali: armadi rotti e arrugginiti, lettini da rottamare, sedie sbilenche, attrezzatura sanitaria obsoleta, muri sporchi, calcinacci per terra, carenza di sedie e barelle, grembiuli sporchi, prese elettriche non perfettamente sicure, scatoli di cartone al posto di cestini sanitari, carenza di guanti, fili elettrici penzolanti e porte a scorrimento poco funzionanti. Non solo, ho visto con i miei occhi fare dei prelievi di sangue facendo poggiare il braccio dei pazienti su uno sgangherato sgabello tutto rotto ed anche malfermo sulle ruote sporche e arrugginite. Il tutto senza il minimo controllo della sicurezza, non dico sanitaria, ma quantomeno igienica. Addirittura quando il mio amico è stato trasportato verso il reparto sulla carrozzella, a causa della mancanza delle pedane, il piede è rimasto incastrato sotto la carrozzella stessa con il rischio di una frattura che solo grazie alla premura di Patrizia è stata scongiurata. E tutto questo, caro Attilio Bianchi, accade in un pronto soccorso di un paese cosiddetto civile. Non è del tutto fuori luogo, quindi, la mia idea di bruciare tutto e ricostruire ex novo l’intera struttura, anche perché rispetto all’epoca in cui il plesso è stato edificato sono cambiate anche le tecnologie urbanistiche per simili strutture con l’allestimento di ampi saloni di accoglienza e di attesa e non di corridoi intercomunicanti come al Ruggi che è rimasto al medio evo della sanità, altro che punto di eccellenza come il bravo Bianchi sbandiera ai quattro venti vendendo fumo, come del resto fa il sindaco de Luca quando con il suo immaginifico pensa al grande ospedale del futuro. Quell’ospedale, caro Bianchi, rimarrà nei sogni di tutti noi, nel frattempo cerchiamo di rimodellare e rimodernare una struttura fatiscente che dovrà essere il vero “biglietto da visita” di quella “Città d’Ippocrate” che Tu stesso hai giustamente voluto e al cui interno, comunque, si muovono ed operano quelli che l’altro giorno ho definito “gli eroi nell’inferno del pronto soccorso”. Parlo dei medici, dei paramedici e del personale in genere che, tra le urla e le minacce dei pazienti e dei loro familiari, cercano di fare il loro dovere andando spesso anche oltre i compiti per i quali sono chiamati a prestare la loro opera professionale. E’ naturale che due medici ed alcuni infermieri per turno non bastano per servire un’utenza potenzialmente numerosa.Ho assistito in diretta agli sforzi sovrumani dei medici Petrocelli e De Vita e dell’infermiera Patrizia Pellecchia, scusandomi per tutti gli altri che si muovevano in quella struttura tra mille e mille difficoltà. Aspetto delle risposte prima di rituffarmi nella variegata, intrigante ed inquietante realtà del San Giovanni di Dio e Ruggi d’Aragona. Sempre per amore della verità, soltanto della verità.