Mafia-Stato: la svolta di Salerno

Aldo Bianchini

La data del 6 marzo 1993 ai più giovani ed agli addetti ai lavori poco attenti non ricorda nulla, o quasi. Quella data passerà alla storia come “la svolta di Salerno” non tanto per la presenza in città del ministro della giustizia dell’epoca Giovanni Battista Conso ma per gli effetti che la visita del ministro ebbe nei mesi successivi. Quella visita, difatti, determinò effetti inimmaginabili per noi cronisti assiepati sul marciapiede di Corso Garibaldi, sotto il tribunale, in attesa dell’uscita del ministro. Giovanni Conso era venuto a Salerno per una missione importantissima da esperire nel palazzo di giustizia, quella cioè di portare la sua solidarietà ad alcuni magistrati inquirenti che erano impegnati in un’azione delicatissima di sensibilizzazione delle coscienze di alcuni potenti camorristi per indurli ad una fattiva collaborazione finalizzata allo smantellamento di quello che restava dell’apparato politico-imprenditoriale-affaristico della cosiddetta prima repubblica. Proprio quel giorno della visita di Conso a Salerno, 6 marzo 1993, il direttore del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, dott. Nicolò Amato (già magistrato, poi avvocato di Ciancimino), inviò al capo di gabinetto del ministro della giustizia l’appunto n. 115077 con il titolo “Organizzazione e rapporti di lavoro”. In quei 75 fogli dell’appunto c’è solo routine, ma alla pag. 59 Amato apre un capitolo cruciale e inquietante al tempo stesso e scrive di “revisione dei decreti ministeriali emanati a partire dal luglio ’92 sulla base dell’art 41/bis”. E’ il cuore del documento rimasto per 17 anni negli archivi del ministero della giustizia e che in questi giorni un cronista di “La Repubblica” ha riportato alla luce. Insomma nell’aria, sette mesi dopo la strage di Borsellino, c’era fretta di revocare il carcere duro ai mafiosi per indurli, probabilmente, alle confessioni più sfrenate verso le presunte verità. Tutto questo passa probabilmente anche per Salerno che sul piano giudiziario opera in stretto contatto con la Procura meneghina. A Salerno ci sono magistrati indicati come i “Di Pietro di Salerno”: Michelangelo Russo, Ennio Bonadies, Leonida Primicerio, Alfredo Greco, Luigi D’Alessio, Vito Di Nicola, Antonio Scarpa ed altri che lavorano a tutto campo ed a trecentosessanta gradi. Ma salernitana doc è anche la dott.ssa Liliana Ferraro, magistrato di lungo corso ed allieva prediletta di Giovanni Falcone (insieme a Livia Pomodoro -attuale presidente del tribunale di Milano), che era giunta nel 1991 proprio con Falcone al ministero e che in quello spaccato temporale (inizio 1993) rivestiva la carica di direttore degli affari penali. E la Ferraro (suggeritrice o informata!!) avrebbe preso direttamene parte alla decisione del ministro in merito alla decisione di non rinnovare il 41/bis (ovvero il carcere duro per i malavitosi), ovviamente tutto è al condizionale perché nulla è certo ed anche l’ex ministro sentito l’11 novembre 2010 dalla Commissione Antimafia sui fatti che portarono a quella decisione del 4 novembre 1993 è stato alquanto vago, così come è stato vago ieri (mercoledì 24.11.10) quando è stato sentito dai pm romani Paolo Guido e Nino Di Matteo. Ma cosa era accaduto dal marzo al novembre dell’anno 1993. Di tutto e di più, almeno in provincia di Salerno. In quello stesso pomeriggio del 6 marzo Michelangelo Russo piombò in Comune per sequestrare tutti gli atti del progetto “Cittadella Giudiziaria”. Il 29 marzo ’93 iniziò ufficialmente la collaborazione del “pentito” Pasquale Galasso che in una località segreta del Trentino veniva ascoltato per giorni e giorni dal pm Ennio Bonadies e dall’allora capitano dei carabinieri Sergio Pascali. Si sciolsero anche altri camorristi conclamati come Raffaele Cutolo (con le dichiarazioni al pm Alfredo Greco) e Pinuccio Cillari (con le rivelazioni ai pm Di Nicola, D’Alessio e Scarpa). Clamorosa la concomitanza della conclusione di un interrogatorio di Galasso verso le tre di notte nel Trentino e la richiesta della sua acquisizione in aula a Salerno, qualche ora dopo verso le dieci del mattino, dal pm Leonida Primicerio nell’ambito di uno dei tanti processi a carico del capo clan Giovanni Maiale di Eboli. Dopo quel 6 marzo 1993 gli effetti sul mondo politico salernitano sono devastanti. Il 23 marzo Vincenzo Giordano si dimette con la promessa di scansare il carcere. Il 27 marzo vengono arrestati Enrico Zambrotti, Ciro Savarese, Marcello Losito e Domenico D’Arco (scandalo Banca Popolare e Autosud). L’11 maggio 93 è il turno dell’architetto Annibale Casilli All’alba del 18 maggio 1993 viene arrestato Alfonso Lamberti, magistrato, accusato di associazione camorristica, corruzione ed estorsione. Secondo le rivelazioni fatte dal pentito Galasso sarebbe stato lui l’uomo di fiducia del clan Alfieri all’ interno dei palazzi di giustizia di Napoli e Salerno. Il 22 maggio 1993 vengono emessi ben sette ordini di cattura internazionale a carico di Gaspare Russo che viene materialmente arrestato soltanto il 10 febbraio 1996 a Parigi. In quello stesso giorno Vincenzo De Luca viene eletto dal consiglio Sindaco di Salerno con il voto contrario di Michele Ragosta. La sera del 31 maggio ’93 viene arrestato l’ex sindaco di Salerno Vincenzo Giordano insieme all’altro ex sindaco Aniello Salzano ed ex assessore Fulvio Bonavitacola. Cadono a Cava de’ Tirreni anche Mario Mellini, Guerino Amato e Antonio Di Donato (costruttore del trincerone di Salerno). Il 23 giugno viene arrestato Salvatore Aversano, vero plenipotenziario dell’ex ministro Conte, poi assolto con formula piena. La mattina del 5 luglio 1993 la punta di diamante delle mamma di tutte le inchieste. I magistrati Addesso, D’Alessio, Di Nicola, Apicella e Scarpa firmano la richiesta di autorizzazione a procedere, da inviare all’apposita Commissione Parlamentare, a carico dei deputati Carmelo Conte e Paolo Del Mese. Gli arresti dei mesi successivi di Salvatore Torsiello (sindaco di Laviano), di Raffaele Colucci (già assessore regionale al turismo), di Angelo Conte (fratello del ministro) e tanti altri furono soltanto strascichi e code prevedibili a conclusione di un teorema (perverso!!) accusatorio basato essenzialmente sulle rivelazioni dei pentiti. Come a Salerno, così in tutto il Paese. In poco tempo la Procura e la DDA di Salerno divennero il secondo ufficio del Paese per numero di pentiti gestiti. Si rizelò, a quel punto, anche la DDA di Napoli che accusò i colleghi salernitani di cattiva gestione e il caso finì dinnanzi al CSM, come sempre senza esiti eclatanti. Cosa accadde quel giorno e nei mesi successivi a Salerno e nel Paese? Difficile rispondere, allora non capimmo nulla anche se avevamo alle spalle le stragi di Capaci e Via D’Amelio. Il patto stato-mafia per porre fine alle stragi, che il figlio di Ciancimino va descrivendo da diverso tempo, è soltanto frutto di farneticanti teorie? Ed, infine, quel patto passò da Salerno? Oggi, a distanza di 17 anni, forse, qualche risposta dobbiamo cominciare a cercarla.