Vivere sulle spalle di un gigante

Ferdinando Longobardi

 Appare chiaro che solo sottraendo la cultura classica dai difetti delle due maldestre schiere di estimatori, che in passato abbiamo definito degli “aridi” e dei “banalizzatori”, questa potrà mantenere un suo autentico ruolo nel patrimonio culturale delle generazioni che verranno. Entrambi infatti ne smorzano la voce: i primi ottundendola con la noia, i secondi soffocandola in una frastornante spettacolarizzazione. Due legittime ed ovvie esigenze, quella della verità e quella della fruibilità il più possibile ampia di una tradizione eccezionale, sono sempre più scisse tra loro e, cadute in mani contrapposte – quelle dei pochi specialisti e quelle dei divulgatori di massa – si trasformano in una sua sostanziale ignoranza e mistificazione. La strada da seguire sarebbe ovviamente quella di riuscire a coniugare le due esigenze evitandone le degenerazioni. Ma questo è possibile solo se si garantisce al maggior numero di persone una preparazione culturale classica tanto seria da permettergli di non cadere vittima delle banalizzazioni fuorvianti, e nello stesso tempo tanto viva da consentirgli di percepirne tutto il fascino e la grandezza. Una preparazione dunque, che non sia quella per pochi, ma neanche quella per tutti. Una preparazione che dia almeno ai futuri professionisti, ai cittadini che intraprendono gli studi liceali e universitari, qualunque sia il loro indirizzo, una conoscenza delle lingue classiche sufficiente per poter affrontare con una certa facilità la lettura diretta (cioè nel testo originale) delle opere del mondo antico, per saper verificare la bontà di una traduzione, e, infine, per essere in grado di penetrare autonomamente lo spirito di un testo. La cultura classica non serve solo a riempire le cattedre degli antichisti (che del resto così facendo saranno sempre di meno) o a fornire al turista del fine settimana qualche nozione sull’utilizzo antico dell’arena di Verona. Se è vero, come è stato autorevolmente detto, che è ingenuo credere che la storia si ripeta, e che conoscere gli errori del passato ci eviti necessariamente di ricadervi, non è forse atteggiamento altrettanto, se non più ingenuo, credere che si possa imparare da ciò che è perfettamente identico (cioè da nulla), e che tutto quanto viviamo sia totalmente, radicalmente nuovo? Il saper distinguere valutare le somiglianze e le diversità, l’essere in grado di concettualizzare i fenomeni pur nella consapevolezza della loro teorica irrepetibilità, di affrontarli con il mezzo squisitamente umano dell’uso della ragione e dell’osservazione, ma anche della coscienza della sua inadeguatezza: non è anche questo il senso di quella ricerca che è incominciata nelle agorà e nei ginnasi di duemilacinquecento anni fa, e che abbiamo tutto l’interesse a riprendere, non perdendo neppure una scheggia di quanto è fortunosamente sopravissuto al crollo del mondo antico? E se è stupido rinunziare a salire sulle spalle di un gigante per malinteso senso dell’originalità, non sarebbe ancora più assurdo rinunziarvi perché non ci si è nemmeno accorti della sua presenza? Credo sia giunto il momento di riaprire certe pagine fondamentali del mondo antico per reinserirci, noi moderni, nel dialogo rimasto in sospeso tra gli interlocutori di allora, e per riprenderlo con passione assieme al resto dell’umanità chiedendoci: “Dunque, dove siamo rimasti?”.