Dal pomo di Adamo ai peli del cavallo

Antonio Pirpan

Aveva poco più di cinque anni, mio figlio Giovanni, Ginny in famiglia,  quando un giorno, seduto sulle mie ginocchia, toccandomi il Pomo di Adamo, mi chiese a bruciapelo: “Babbo, a che serve questo ‘coso’?”Una domanda antica come il Libro di Giobbe.  Ricordo che stavo per sprofondare, poi, invocai l’aiuto divino e tentai una risposta che mi sembrò attendibile: “A mantenere ferma la cravatta”. Lui sorrise soddisfatto, e il discorso finì lì.  Da Allora, ho imparato che, se nella vita vuoi guadagnare fiducia e rispetto, ciò che conta è dare una risposta a qualsiasi domanda. Ricordai in quell’istante la domanda che, a mia volta, avevo fatto alla mamma in una fredda e tempestosa serata di tanti anni prima, quando nella penombra della stanza, fui scosso da un tuono che mi tolse il respiro: “Mamma”, chiesi spaventato, “chi fa i tuoni?”,  e lei, con voce calda e suadente mi tranquillizzò: “Non aver paura, è il buon Dio che sta spostando i mobili del Paradiso”. Che meraviglia! E ancora oggi riaffiora, nitida nella memoria, un’altra traccia nella quale misi a frutto quell’esperienza, quando cioè il mio insegnante di matematica, in vena di celie, nel bel mezzo di una interrogazione, mi chiese quanti peli di sono nella coda di un cavallo. Non ci pensai un istante e risposi convinto: “Undicimiliseicentoquarantasei, uno più uno meno”. Lo feci secco, meritandomi l’applauso delle scolaresca. Da quella volta, ho preso l’abitudine di contare tutto. Il resto del salumiere, quanti denti naturali ho ancora in bocca, le pecore per addormentarmi, le dita della mano della gente che mi saluta, fino a cinque prima di rispondere, le calorie di ogni cibo che mangio, e gli angeli sulla punta di uno spillo. E qui la faccenda si complica. Lasciatemi pensare.