Corsa all’ospedale … tra lucciole e lanterne

Antonio Pirpan

Succede di tutto, quando meno te lo aspetti. Su parere del medico, avevo assunto un antinfiammatorio per una ostinata lombalgia che da giorni mi procurava seri dolori alla bassa schiena, e guardavo la Tv per distrarmi. Improvvisamente, la stanza comincia a girarmi intorno, mentre braccia e gambe diventano flosce. Barcollando, raggiungo la camera da letto, mentre mia moglie chiama il 118 e mia nuora allerta la Guardia Medica. Riesco a stendermi alla meglio sotto l’effetto di vertigini e crampi allo stomaco, con sudarella fredda e accelerazione cardiaca. Riflessa nello specchio,vedo la mia faccia bianca come la cera, tipo quella di Lazzaro all’imbocco delle tomba. Nella concitazione del momento il letto si riempie di tutto, il cordless, due cellulari, l’elenco del telefono, un blook-notes, una biro, due paia di occhiali da vista. Arriva l’ambulanza. Un infermiere mi prende la pressione e la sua voce non ammette repliche: “Novanta su centocinquanta. Bisogna muoversi”. Esco dall’ascensore appena in tempo per vomitare un liquido amaro e verdognolo che dal mio stomaco si trasferisce direttamente tra le gambe e sulle scarpe dei due giovanotti che mi sorreggono. In ambulanza, uno dei volontari chiede a mia moglie: “Quanti anni ha?”. E lei, premurosa: “Sessantacinque”. Lui non ci crede e mi lancia uno sguardo. Mia moglie intuisce e, rivolta a me, chiede: “Quanti anni hai?”. “Settantacinque, e rotti”, rispondo balbettando: E l’altro: “Lo dicevo io. Con quella faccia!”. Al Pronto Soccorso dell’Ospedale “San Giovanni di Dio e Ruggi d’Aragona di Salerno, c’è il solito andirivieni. Quattro persone sono impegnate per il mio trasferimento dalla barella dell’ambulanza alla lettiga dell’ospedale. Un infermiere conta: “Uno, due, tre…”dimenticando di slacciare la cinghia che mi blocca le gambe, e per un pelo, non precipito nello spazio a piombo tra i due traballanti mezzi di trasporto. Nella paranoia del momento, mi sembra di leggere sulla porta d’ingresso la scritta dantesca “lasciate ogni speranza voi ch’entrate”. Dentro, mi riceve l’équipe del nucleo interno, che entra in azione. Scattano le operazioni elencate nel protocollo diagnostico: prelievo di un campione di sangue, misurazione della pressione arteriosa, controllo elettrocardiografico. Intanto, l’infermiera di turno, robusta ma delicata, monta la fleboclisi e mi infila l’ago nelle vene, ed io continuo a vedere lucciole per lanterne, perché improvvisamente mi appare la sagoma di una crocerossina che maneggia un cannone. Cosa fa la forza della suggestione. A questo punto, c’è un vuoto che non riesco a colmare. Quando riapro gli occhi, mi accorgo che sono passate più di tre ore da quando il cocktail di plasilò, zantac, spasmex, glicerolo e glucosio, scorre lentamente nelle vene. Avverto un rilassante senso di benessere: la vista è più chiara, le vertigini sono quasi scomparse, il vomito non c’è più. Detto in breve, mi sento più presente e sono in grado di osservare l’ambiente che mi circonda: tre scatoloni scoperti, stracolmi di rifiuti e di vomito; squarci profondi e pericolosi sul tappeto di plastica del pavimento; un vecchietto su una sedia a rotelle, parcheggiato al mio fianco, in atteggiamento di supplica; la sagoma di un omone che spazza per terra in continuazione, con la polvere che mi prende alla gola; una siringa appena utilizzata che mi passa sulla testa e va a cadere lontano; infermieri in vena di risate. Dal corridoio, scorgo mia moglie che mi saluta agitando la mano, mentre conto con quante dita lo fa. All’uscita, l’orologio segna le due del mattino. Che mi siano tornate le allucinazioni?