Processo Vividown. Google ai ferri…corti!

 Michele Ingenito

 Prosegue a Milano il processo contro Google, il colosso mondiale dell’informazione in rete. Il 29 settembre è proseguita l’udienza sospesa il 23 giugno scorso a causa dell’assenza dell’interprete incaricato di raccogliere la testimonianza in inglese dell’Ing. Jeremy Doig. Il processo a Google  nasce da un video caricato sulla piattaforma di videosharing gestita da sempre da Google e riproducente un episodio di cyberbullismo di cui è rimasto vittima un minore down di una scuola torinese picchiato e maltrattato dai propri compagni. L’ingegnere Doig è colui che avrebbe sviluppato, insieme al proprio team, la piattaforma GoogleVideo su sui è stato poi caricato il filmato contestato. Il tecnico statunitense di Google avrebbe confermato che i server per trattare i filmati sarebbero stati caricati in rete sono negli Usa, mentre nessun dato sarebbe stato trattato in Italia e che comunque il video sarebbe stato rimosso subito dopo l’avvenuta segnalazione. Sempre Doig avrebbe chiarito che ogni video caricato relativo ai fatti contestati sarebbe stato sottoposto a controllo da parte di persone all’uopo incaricate. Resta il fatto che sarebbero state soltanto due le persone addette ai controlli, cosa che ha indotto il giudice monocratico Oscar Magi a porre una precisa domanda in tal senso al tecnico di Google. Per l’ingegnere americano la causa di tutto ciò sarebbe da attribuire alla mancanza di risorse. La pubblica accusa avrebbe, però, contestato la mancata presa in considerazione da parte di Google di altre precedenti analoghe segnalazioni. A tale riguardo un altro responsabile di Google, Marco Pancini, usando la metafora, avrebbe dichiarato la impossibilità del postino di controllare tutte le lettere inviate. Una maniera in verità semplicistica di aggirare l’ostacolo delle responsabilità atteso che la posta di Google è visibile e, perciò, controllabile, diversamente dalle lettere spedite in busta chiusa. La questione è indubbiamente attuale e di estremo interesse e la sentenza del giudice penale, prevista entro la fine di dicembre prossimo, molto attesa sul mercato dell’informazione. Il 25 novembre prossimo i pm Robledo e Cajani daranno fondo alla loro requisitoria, preceduti da quelle delle parti civili, cioè dell’Associazione Vividown – difesa dall’Avv. Guido Camera di Milano – e dal difensore civico, rappresentato dall’Avvocatura Comunale. L’ultima parola spetterà alla difesa, il cui intervento avrà luogo il 16 dicembre 2009. – La sentenza è attesa per  il 23 dicembre. L’udienza del 29 settembre, svoltasi a porte chiuse, ha impedito alla stampa di assistervi. Ciò dimostra la delicatezza della vicenda e rende oggettivamente difficile la posizione di chi contribuisce a divulgare fatti, notizie e video di assoluta delicatezza individuale e collettiva, specie quando al centro di episodi di assoluto squallore umano e sociale si ritrovano, loro malgrado, persone giovani e indifese. Sono in molti coloro i quali ritengono che la sentenza che sarà emessa farà comunque giurisprudenza e, con ogni probabilità, porrà una stretta a provider e motori di ricerca sui quali si legge di tutto e di più. Uno dei punti forti dell’accusa rappresentata dai pubblici ministeri milanesi Francesco Cajani e Alfredo Robledo riguarda il fatto che Google comunque guadagnò molto in “profitti pubblicitari da quel filmino tra i più visti”. Sul banco degli imputati sono finiti anche David Drummond (Senior Vice-President di Google e Chief Legal Officer), George Reyes (ex-Chief Financial Officer), Peter Fleischer (Global Privacy Counsellor) ed un quarto dirigente Google.Come si ricorderà fu solo grazie all’intervento della Polizia Giudiziaria che ordinò all’epoca la rimozione del video on line. E’ lecito ritenere, dunque, che la sua diffusione sarebbe proseguita nel tempo. Tutto ciò rafforzerebbe la tesi dell’accusa rispetto a quella della Difesa e della sua teoria circa l’impossibilità “dei postini” di potere controllare tutta la posta. Il difensore dell’Associazione Vivi Down di Milano Guido Camera, uno dei principi del foro milanese, che tutela gli interessi del giovane down a suo tempo sottoposto all’ignobile trattamento da parte dei propri compagni di classe, non anticipa pronostici. Ma le articolate tesi difensive da lui sostenute inducono a nutrire un moderato ottimismo perché giustizia sia fatta a tutela del caso seguito e di altri potenziali casi che potrebbero verificarsi in futuro. Del resto, come si ricorderà, la stessa stampa americana rappresentata dal Wall Street Journal, non è stata affatto tenera nei confronti di Google, ritenuta non meno responsabile degli stupidi compagni di classe del minore vessato e malmenato, la cui bravata finì all’epoca su You Tube. Indipendentemente da quanto la giustizia milanese riterrà di affermare, è palesemente incivile una società che consente di divulgare con mezzi di comunicazione di massa così invasivi della privacy del cittadino scene come quelle pubblicate da Google a danno di un minore down. Ne consegue, a rigore di logica, che quei mezzi potentissimi abbiano il dovere di esercitare tutti i dovuti controlli prima di dare spazio a scene di assoluto degrado che offende il buon gusto e l’onorabilità di qualsiasi essere umano. A maggior ragione quando si tratta di ragazzi giovani e indifesi, oltre che addirittura down. Da qui la solidarietà umana e civile per l’episodio attualmente all’attenzione dei giudici milanesi e per tutti quegli altri casi analoghi che, per un motivo e l’altro, i diretti interessati non sempre riescono a tutelare.