Ministro Gelmini, provochiamo?

 Michele Ingenito

 

L’Università italiana continua a prendere botte. A destra e a manca. Ovunque e qualunque cosa leggi (giornali, periodici) o vedi (televisioni) o senti (radio), il risultato è sempre lo stesso. Siamo gli ultimi in Europa e tra i più depressi (metaforicamente parlando) nel mondo. Uno dei maggiori problemi che frenano drasticamente la formazione dei nostri studenti riguarda l’organizzazione della didattica. Ad esempio. Non si contano le sedute di esami che nel corso dell’anno vengono svolte. Uno dei retaggio peggiori della rivoluzione culturale del ’68 (sempre la stessa) riguarda proprio la libertà dello studente di potere sostenere gli esami diecimila volte l’anno. Questo cosa determina? Che nel bel mezzo di un processo formativo (lesioni, seminari, esercitazioni, attività tutoria e quanto altro) tutto si sospende per lunghe settimane, in attesa di completare le innumerevoli sessioni di esami. Da qui la conseguenza, all’epoca di questa sciagurata riforma, di dovere automaticamente suddividere l’anno accademico in due semestri, allo scopo di consentire il ‘regolare’ svolgimento dei corsi. Cosa che, dopotutto, regolare non è.  Oggi come oggi accade, infatti, che il primo semestre inizi solitamente a fine settembre. Ad ottobre, però, la prima interruzione della didattica. Un paio di settimane da dedicare ad un appello intermedio. Poi si riprende fino a metà dicembre per un ennesima seduta di esami. Ripresa a gennaio e nuova interruzione ai primi di febbraio e fino a marzo, sempre per esami. Fine del primo semestre. Di mezzo la lunga pausa natalizia. A metà marzo ha inizio il secondo semestre. Interrotto, però, ad aprile, per una nuova seduta di esami anche questi di recupero, seguita dalle vacanze pasquali. Finalmente da metà aprile a fine maggio riprende la didattica. Ai primi di giugno cessa. Giugno, luglio e settembre tutti dedicati agli esami. Mi sa dire, signor ministro (e glielo chiedo da accademico di lungo corso), quale senso e quali risultati può produrre un processo di apprendimento che non sia costante e privo di interruzioni. Ciò vale per tutte le discipline, naturalmente. Ma per alcune in particolare! Facciamo l’esempio delle lingue straniere. Il principio della continuità è fondamentale. Bombardare didatticamente gli studenti per mesi e/o settimane intervallate da continue sospensioni fa sì che quei poveracci apprendono oggi ciò che dimenticheranno domani.Per non parlare dei semestri. Piaga nella piaga. Semestre è una parola assolutamente formale. Perché, e lei lo sa bene, non di semestre si tratta. Bensì di trimestre. Quale qualità formativa può produrre un qualsiasi corso fondamentale (ci riferiamo a tutte le discipline esistenti) se lo si delimita nell’ambito di tre mesi scarsi? Ovvio che, nel generale andazzo che stimola la quantità, i diretti interessati – gli studenti – puntino ad accaparrarsi il maggior numero di esami tra primo e secondo semestre in questo benedetto paese in cui resiste ancora il valore legale del titolo di studio. Le sembra a questo punto troppo provocatorio proporle una legge di riforma (se ne fanno tante, perché non un’altra, se efficace e competitiva con gli altri paesi più avanti di noi?) che riporti tutto ai vecchi e funzionali canoni della didattica? Detto in parole semplici: prima sessione di esami tra giugno e luglio. Seconda sessione a settembre. Inizio corsi a ottobre, non più semestrali ma esclusivamente annuali fino alla vigilia delle festività tradizionali. Pausa natalizia, quindi. Una sessione straordinaria di esami non oltre la metà di gennaio. Poi una tirata di lezioni e attività didattiche varie fino a fine maggio, salvo la breve parentesi festiva pasquale. Via, quindi, gli infiniti appelli di esami interruttivi di ottobre, novembre, gennaio, febbraio, marzo e aprile.La continuità didattica rappresenta il punto cardine di una formazione seria e produttiva. Fossimo in lei, escluderemmo anche la sessione straordinaria di gennaio. L’università, in fondo, dovrebbe essere come la scuola sotto il profilo della continuità didattica. In nessun paese accademicamente avanzato esiste questo frequente meccanismo interruttivo dell’attività didattica.Perché i criteri della logica non devono essere intesi come lesivi di quelli connessi alla libertà degli studenti. Tutt’altro. L’autonomia universitaria ha del resto contribuito enormemente allo sconquasso generale, tranne che nelle realtà accademiche degne di tal nome. E comunque, nessuna tra le cosiddette migliori si colloca in posizioni di vertice tra Francia, Germania, Inghilterra e Spagna. Ovvio. Perché le medesime devono a loro volta sottostare alle leggi in vigore e solo là dove l’autonomia glielo consente, possono gestire la cosa con oculatezza e senso di responsabilità. Da qui (solo) il 78mo posto di Bologna, la prima d’Italia, nella graduatoria tra le università dei paesi sopra citati. Ma, per altri casi, e sono infiniti, una miriade di cosiddetti responsabili andrebbero presi a calci nella zona meno assolata possibile e buttati fuori dalle università da loro amministrate, senza tanti complimenti e, magari, con un formale foglio di via da parte delle competenti autorità. Cosa impossibile, che, nell’occasione, ci fa rimpiangere la mancanza di un Gheddafi.Ci pensi, allora, ministro. E cominci a studiare il problema. La cui soluzione, del resto, è dietro l’angolo. Come motivarla politicamente? Torni all’inizio di questo articolo e troverà la risposta. Ammesso che lei ne abbia davvero bisogno! Nella peggiore delle ipotesi, ove non riuscisse a rimettere ordine con le leggi nell’attuale caotica ed improduttiva organizzazione generale della didattica nelle università (anche lei, in fondo, fa parte del sistema e, in quanto tale, vi si può opporre fino ad un certo punto), si batta per l’abrogazione del valore legale del titolo di studio. A quel punto il sistema si adeguerà automaticamente al mercato e chi vorrà comunque il suo pezzo di carta sarà ben felice di averlo ottenuto. Indipendentemente dalla università di serie C alla quale non si rivolgeranno mai i giovani dotati di migliori capacità e, conseguentemente, motivati da ben altre ambizioni.