La fotografia dello scandalo

Giovanna Rezzoagli

Ha destato tanto clamore negli Stati Uniti la pubblicazione  su alcuni quotidiani della fotografia del giovane marine Joshua Bernard, agonizzante dopo essere stato colpito a morte dai talebani lo scorso 15 agosto. La foto per l’ Associated Press, agenzia che la ha distribuita, rappresenta un importante documento giornalistico, per il Pentagono e per la famiglia del giovane ucciso è una grave e raccapricciante violazione del buon senso e del rispetto nei confronti della vittima.  Un articolo scritto può evidenziare una specifica componente di un episodio e, soprattutto, esprime una narrazione comunque mediata da colui che scrive. Ciò avviene indipendentemente dall’oggettività dell’autore dello scritto, perché elementi inconsci agiscono costantemente sulle modalità di espressione e di comunicazione di ciascuno di noi. Inoltre è, a mio avviso,di fondamentale importanza sottolineare che ogni individuo che legge o ascolta una comunicazione, sia essa giornalistica o di altra fonte, elabora il messaggio che riceve e lo deforma attraverso i propri schemi di comprensione, trattenendo le componenti che per esso hanno valenza a discapito di elementi che favorirebbero una visione critica e meno soggetta a condizionamenti. La comunicazione visiva che si esplica attraverso una immagine fotografica viene immediatamente recepita da colui che la osserva, senza possibilità di edulcorare il messaggio trasmesso o di diminuire l’impatto emotivo che viene ad essere determinato. La guerra è  sangue, occhi sbarrati nell’istante della morte, membra innaturalmente piegate. La morte violenta è tutto ciò. Sicuramente ai politici, agli opinionisti e a tutti coloro i quali si sentono sufficientemente edotti per teorizzare le necessità e tutto quanto compone l’impianto teorico su cui si fonda la guerra, non possono che temere in privato e deplorare in pubblico la diffusione di immagini concrete. Non mi permetto di entrare nel merito delle ragioni di biasimo da parte di una famiglia che ha perso un figlio e si vede rinnovato il dolore del lutto allorquando costretta a vedere l’immagine in questione, credo che nessuno possa permettersi di farlo. L’informazione scevra da qualsiasi possibilità di interpretazione è comunque un bene prezioso per tutti coloro che non possono avere una percezione oggettiva di un dato accadimento. Come si può parlare di guerra in modo serio e compiuto quando non la si è vissuta se non in modo puramente vicario? Certo che lascia allibiti l’immagine di un ragazzo che muore, ma l’essere allibiti cambia forse la realtà della morte di quel ragazzo? O si resta allibiti perché costretti a guardare ciò che obbliga a porsi domande a cui nessuno ci ha abituato a risponderci?  Anche la negazione di una foto che, se scattata mai mi risulta  pubblicata, comunica un messaggio egualmente forte: la foto di un talebano morente proprio come il marine Joshua, indignerebbe allo stesso modo? Proprio come, a volte, il silenzio comunica più dei proclami, la concretezza della morte urla l’essenza di una vita non vissuta.