Dio e dintorni: disputa o dialogo?

Fulvio Sguerso

 Alla fine della lettura di questa “dotta disputa” (direbbe l’Azzeccagarbugli) tra un laico non credente (Augias) e un laico credente (Mancuso), voltata l’ultima pagina e chiuso il libro, la prima domanda che emerge nella coscienza del partecipe lettore (o lettrice) è: “Chi ha ragione?”; o meglio: “Io con  chi mi ritrovo più in sintonia?”. E’ infatti evidente che entrambi gli interlocutori non solo hanno le loro ragioni ma hanno pure – mi si passi il bisticcio –  in parte, ragione; e non di rado, infatti, dichiarano di trovarsi in accordo su determinate questioni, soprattutto in merito alla non negoziabile libertà e  laicità della ricerca scientifica e teologica, libertà e laicità per definizione incompatibili con i dogmi, siano essi “scientifici” o  “teologici”. Ma qui si apre una prima spinosa questione: può un fedele cattolico “praticante” quale Mancuso si professa, correggere in parte o negare del tutto alcuni principi qualificanti e fondamentali della dottrina cattolica? “La Chiesa è la mia comunità, vivo con gioia la celebrazione del mistero divino nella liturgia (a volte, a essere sincero, mi annoio un po’ durante certe prediche) e ascolto con attenzione il magistero. Ma l’istanza ultima che muove il mio pensare non è la Chiesa con la sua dottrina, bensì la verità della vita. Vi sono due tipologie di teologi, entrambe legittime: coloro che scelgono la Chiesa come interlocutrice privilegiata della loro teologia, che comunque deve risultare in accordo con la dottrina prestabilita, e sono la maggioranza; e coloro che invece scelgono il mondo, e sono la minoranza., Io appartengo  alla minoranza.”  Ma questo sarebbe ancora accettabile da un punto di vista, diciamo così, accademico: non è un dogma che tutti i teologi cattolici debbano occuparsi di ecclesiologia o di apologetica, tanto più oggi, quando un certo pluralismo è ormai tollerato – entro certi limiti – nell’ambito degli studi e dell’insegnamento della dottrina (salvo i processi  e le interdizioni a carico di teologi “disobbedienti”, o diversamente obbedienti, come Leonardo Boff e Hans Kung );  problemi più seri  si presentano quando Mancuso, trattando del dogma dell’Immacolata Concezione, afferma:. “ Il dilemma è il seguente: o si nega che Maria sia stata concepita senza peccato originale e la si fa nascere peccatrice come si pensa che nascano tutti gli altri esseri umani;oppure si nega il peccato originale, si nega cioè che, per colpa di Adamo, i bambini nascano con l’anima macchiata da un peccato che li allontana da Dio rendendoli come morti alla vita spirituale. Io, da tempo, abbraccio la seconda alternativa. Nego cioè il dogma del peccato originale in quanto ‘’peccato’’, considerando più appropriato parlare di ‘’caos originale’’ per dare conto dello stato iniziale con cui la libertà si presenta al mondo. In questa prospettiva io estendo a ogni bambino e a ogni bambina l’Immacolata Concezione…’’. Qui viene messo in discussione nientemeno che il dogma del peccato originale (o, in alternativa, quello dell’Immacolata Concezione) e si può ben comprendere come il teologo laico Vito Mancuso sia guardato con sospetto dalle gerarchie  ecclesiastiche, guadagnandosi, in compenso, la simpatia dell’”illuminista” Augias e di quanti ritengono che i troppi misteri e le troppe astruserie sedimentatesi nel corso dei secoli nella dottrina cattolica, in aggiunta a una precettistica estremamente severa soprattutto nei confronti dei comportamenti sessuali,  allontanino dalla fede i giovani più raziocinanti e meno inclini alla doppia morale praticata da tanti cattolici, così in alto come  in basso, di nome ma forse non di fatto, scandalizzando i vecchi e semplici nonché autentici devoti piuttosto che conquistarne di nuovi. Ed è proprio sulle questioni etiche e politiche che le tesi dei   due disputanti si trovano sostanzialmente in sintonia, questioni discusse per lo più nella sezione dedicata ai “Dintorni”, nella prima parte del libro, come quelle della Chiesa in quanto istituzione politica e dei suoi “sconfinamenti” nel territorio giurisdizionalmente laico dello Stato, come accadde per il caso Welby e per l’ancor più angoscioso e angosciante caso Englaro, dove lo scontro tra l’etica astratta, formale, dogmatica e non negoziabile delle gerarchie ecclesiastiche e l’etica  “relativistica”  del mondo laico – condivisa, in queste circostanze, anche da alcuni religiosi non dogmatici – ha assunto, grazie anche alla grancassa mediatica,  proporzioni drammatiche e spettacolari, dividendo per mesi l’opinione pubblica tra chi voleva prolungare ad ogni costo una vita non più vita, e chi si rimetteva alla libera decisione dei familiari di “staccare la spina”. Scontro in cui i toni polemici oltremodo accesi (soprattutto, a dire il vero, da parte dei fondamentalisti cattolici,  coadiuvati da un rumoroso manipolo di atei devoti) impedivano un esame se non sereno almeno pacato e rispettoso delle opinioni altrui. Ora tutto si potrà dire circa l’atteggiamento dei due interlocutori-corrispondenti di questo “carteggio” filosofico sui fondamenti della morale, sulla religione, sul cristianesimo e sul fine ultimo della vita e del mondo, meno che non sia reciprocamente rispettoso e sinceramente disposto a capire gli argomenti e le ragioni portati innanzi ora da uno ora dall’altro a sostegno del proprio “credo”. Sia Mancuso che Augias, infatti, cominciano con una “professione di fede”, uno nel Dio trascendente e creatore, che agisce orientando il processo evolutivo della materia e della vita  verso la libertà dello spirito, l’altro, foscolianamente, nel “Nulla si crea, nulla si distrugge, tutto si trasforma” del Lavoisier. In che cosa differiscono queste due fedi? Nell’attribuzione o nella negazione di un senso, o, se si preferisce, di una causa finale alla vita così di ogni singolo essere umano come dell’intero universo. Augias: “ Non credo  che la nostra vita su questa terra abbia alcun significato trascendente; non credo che ci sia un’altra vita dopo la morte, sono convinto che con l’ultimo respiro tutto finisca e che ciò che era polvere torni a essere polvere, o cenere, torni cioè nel grande flusso dell’Essere. Credo che il bisogno di una corretta morale sia innato in ogni essere umano quando non venga deviato dalla povertà, dalla malattia, da una società oppressiva e malvagia. Credo, in definitiva, che non sia necessario un qualche dio per vivere secondo giustizia, in armonia con la natura e con i propri simili.” Anche Mancuso si dichiara convinto che il bene e la giustizia valgano di per sé, “ e non perché dettati dalla Bibbia o dalla Chiesa o da ambedue”; ma vede proprio in questo amore incondizionato per il bene e la giustizia la presenza della spirito, cioè di Dio stesso, di un Dio non “totalmente altro”, di cui la cosa migliore che potremmo fare è liberarcene, ma di un Dio che abita in noi, nel più profondo di noi stessi, e che per questo ci “divinizza” già in questa vita (come dire che il regno dei cieli comincia su questa terra). E sarà proprio sulle questioni discusse nella seconda parte del libro, “Dio (e altri misteri)”, che le posizioni dei due coautori appariranno a tratti inconciliabili, a cominciare da “quel centro, vuoto o pieno che lo si ritenga” (Augias) verso e intorno  a cui  converge il discorso, cioè il concetto di Dio: per Mancuso è il principio e il fine di tutto, per Augias è un’idea coniata dall’uomo “per riempire un vuoto di conoscenza, per attribuire a una inspiegabile metafisica ciò che non riusciva a far rientrare nell’ambito delle conoscenze disponibili.” Insomma, conclude Augias citando Feuerbach: “Non è Dio che ha creato l’uomo, ma l’uomo che ha creato Dio”. (In un caso come nell’altro, vien fatto di pensare, ormai Dio c’è, o come ente supremo o come idea, e dobbiamo tenerne conto). Un altro argomento di discussione in questa seconda parte è quello della conciliabilità o inconciliabilità del male presente nel mondo con l’onnipotenza e la bontà “infinita” attribuita a Dio, discussione inesauribile e infatti tuttora aperta., addirittura all’interno della Chiesa. Nel capitolo intitolato “La letteratura, l’anima e un imbarazzante contrasto”, Mancuso riferisce e commenta una, appunto, “imbarazzante” divergenza di vedute, a proposito della concezione del  male come appare nella definizione goethiana del diavolo nel Faust, cioè “una parte di quella forza che vuole sempre il male e opera sempre il bene” , tra papa Giovanni PaoloII e papa Benedetto XVI. “La diversa valutazione della medesima frase di Goethe indica due modalità opposte di pensare il ruolo del male all’interno dell’essere, due filosofie opposte in ordine al rapporto fra Dio e il mondo. Il tema è d’importanza tale che tocca il cuore della visione cattolica del mondo. Gioivanni Paolo II, appoggiando Goethe, dice che il male rientra nel progetto divino sul mondo, è voluto come parte di tale progetto. Benedetto XVI, contrastando Goethe, dice che il male non rientra nel progetto divino sul mondo, non è voluto come parte di tale progetto. Chi ha ragione?” Eh già: chi ha ragione? Bisognerebbe chiederlo al Padreterno in persona, oppure, in mancanza di risposta, direttamente a Mefistofele (sempre che ci si possa fidare del diavolo!). Molte altre notevoli questioni vengono trattate secondo i rispettivi punti di vista;  tra queste la distinzione tra il Gesù storico e il Cristo del Nuovo Testamento, la religione considerata entro i limiti della sola ragione, le contraddizioni “logiche” insite nell’affermare la divinità e insieme l’umanità del Figlio di Dio (o il significato nascosto nell’espressione Figlio di Dio), il carattere mitologico e allegorico dei testi biblici, la contraddittorietà di un dogma come quello dell’Immacolata Concezione, di cui si è detto sopra, e della Vergine Madre di Dio (e figlia del suo figlio), il mistero trinitario, il Dio- natura di Spinoza e il Dio Padre del Vangelo, ecc. Ma alla fine di questo “dialogo a distanza” tramite – come avviene oggi – posta elettronica, che cosa rimane? Possibile che le appassionate argomentazioni, gli esempi e i riferimenti ad esperienze personali, alla storia, alla letteratura, all’arte e alla musica (Schubert e Bach) portati dall’uno e dall’altro a sostegno della propria visione dell’uomo e del mondo, anche se non hanno persuaso o convertito nessuno dei due alle ragioni dell’altro, siano scorsi via senza lasciare traccia? Infatti una traccia, e forse più di una, è stata lasciata: “Le discussioni, o dispute (per venirle incontro), non si tengono tanto per convincere, bensì per  ascoltare i motivi dell’altro, sondare le sue ragioni, studiare il modo in cui argomenta e sa rispondere. Da questo punto di vista devo dire che la discussione mi è piaciuta….”(Augias). “Anche per me questo dialogo è stato importante e impegnativo. Anzi, vorrei dire che resta importante e impegnativo perché, per quanto mi riguarda, è destinato a continuare dentro di me……”(Mancuso). Dunque è vero che i dialoghi e i colloqui, se sono sinceri, non ci lasciano mai uguali a come eravamo prima; e così anche nel lettore o nella lettrice rimarrà qualche traccia, dal momento che le questioni e i temi trattati ci riguardano tutti da vicino. Se poi dovessi rispondere alla domanda posta all’inizio, cioè con chi mi sento più in sintonia, confesso che non saprei cosa rispondere. Forse, per decidermi, avrei dovuto partecipare alla “disputa” non come spettatore ma come terzo interlocutore. Scherzi a parte, ho avvertito la mancanza di un terzo interlocutore che, incorporando le tesi dell’uno e dell’altro, le superasse in una nuova sintesi, ma aperta indefinitamente ad altri esempi e ad altre argomentazioni. D’altronde, non siamo forse particelle o modi di una sostanza infinita, frammenti di un tutto di cui non conosciamo né l’estensione né il volto né jl genere né ancora, probabilmente, il vero nome (ammesso che ne abbia uno)?