Quando l’arte dei sapori diventa storia

 

«ADD’’O ROMANO – LA TRATTORIA»

Alberto Mirabella

– Andiamo dal Romano? (add’’o Romano) – mi chiese l’amico Franco Pastore (ovvero Àndropos),ricordandomi l’andata a Sarno, alla ricerca delle pietanze e dei sapori d’un tempo, veicolati dalcumulo dei ricordi comuni nella bella terra dell’Agro. Ci arriviamo verso le tredici ed il centro storico ci accoglie, in Via de Liguori, una delle più vetuste della città. Al n. 81, ci ospita quest’ antica trattoria, gestita con competenza dai simpatici coniugi Cerrato che pongono particolare cura nel soddisfare i clienti vogliosi, ovvero vuliùse, delle saporite pietanze d’una volta: “i piatti poveri”. Appena entrati già si avverte un gradevole profumo di cibo,( ovvero l’uósemo ).In men che non si dica, siamo alle prese con un ricco antipasto: ’O pèro e ’u musso (1) confinocchio ed olive bianche, un gustoso tortino di ’ammariélle ’i sciummo (2), soppressata paesana e profumato pecorino locale. Il tutto era impreziosito da capitone grigliato (o capetóne), méscete e pane siritìccio o siritìzzo (3), una vera leccornìa dei bei tempi andati.La volontaria rinuncia al primo piatto, ci ha permesso di continuare la degustatio, con una magnifica insalata di stoccafisso, con olive e sedano sarnese, meglio identificato come l’àccio schiano (4), seguito da una profumatissima portata di baccalà ’mpurgatòrio (5). L’ultimo sorso di vino, un liquore d’eccezione, frutto di vitigni misti (Montepulciano d’Abruzzzo e Aglianico) e prodotto dalla casa, ha sigillato egregiamente una dorata porzione di baccalà fritto. Abbiamoterminato il pasto con ananas, una porzione di panna cotta con succo di fragole ed un’ottima grappa stagionata. Ma la cosa più bella è stata la simpatica intesa che si è creata con Gaetano, l’oste, la consorte ed il figlio, i quali, facendo ricorso ad espressioni tipiche del dialetto sarnese, ci hanno offerto l’occasione di ricordare il suo stretto legame con la lingua greca e latina.Ed è stato così che, a fine pasto, abbiamo potuto asserire che c’eravamo arricriàti(6), esclamando a voce sostenuta e con somma soddisfazione : – Ngi simme allattàte!– (7) tanto che persino l’ugola, ovvero ’u zinziniéllo (8), aveva avvertito il gusto. Ma bello è stato, rivangando il passato, ricordare la fame atavica del dopoguerra quando, a detta del gestore, si diceva che c’era ’a pirìmma (9). Franco ed io abbiamo di rimando sottolineato che no’ potéveme chiure vócca (10), infatti, avevamo mangiato bene in quel locale di Via de Liguori, nei pressi della fontana detta ’a fontana r’’i tre cannuóle (11). Alla fine, dopo il bel mangiare e bere, il discorso è andato alle pietanze tipiche di quando fa freddo: ’u zzuffrìtto (12), ’a scaròla ’mbottonàta o attaccàta (13) o quella fritta c’’o sarachiéllo e ’o

papàvelo (14), pietanza particolarmente gradita a mio nonno Alberto, soprattutto se accompagnata da buon vino. E in ciò il nonno smentiva il poeta latino Gaio Valerio Catullo (Carme 27) quando si scagliava contro le acque lymphae vini pernicies (rovina del vino) invitandole a recarsi dai vecchi brontoloni (ad severos migrate), sì, perché mio nonno gradiva il vino e non l’acqua e come tanti asseriva che l’acqua va rint’’e spalle! (15).

Nella foga del parlare ho pensato:- Vuoi vedere che qui ci dimentichiamo di pagare il conto? – poi, ad alta voce, ho detto scherzosamente a Franco: “Mò nge sceppàmme ’na mòla!”(16). Ma anche l’importo è stato di nostro gradimento, soprattutto se rapportato alle esagerazioni tipiche di certi menu cittadini, dove è tutto fummo e niénte arrùste (17). Il locale, grazioso nel suo aspetto rustico di fine ottocento, è caratterizzato da un pavimento di ba-salto, quei vàsule con cui un tempo erano lastricate le nostre strade, consentendoci di giocare a spaccavàsule (18) . Insomma è stata per dirla con il regista Ettore Scola: una giornata particolare da replicare quanto prima. Prima di congedarci, Giovanni ci fa vedere le anguille poste nel paniere di acciaio, tirandole su dal fiume dove scorre un’acqua cristallina, sottolineando che le anguille vanno consumate nella freschezza, cioè dal fium alla padella. Che dire poi di Maria Rosaria? Con le pietanze ci ha servito la grazia del suo sorriso, guidandoci con cura nella scelta delle pietanze, senza mortificare il nostro discernimento con personali imposizioni. Alla fine abbiamo lasciato il locale con un certo rammarico: era come andar via da casa nostra, pulita, arieggiata e profumata di vino vecchio, come quei ritrovi di una volta, che sono scomparsi anche dal diverticolo della nostra memoria. Erano le sedici di quel 22 aprile 2009 oramai andato, quando varcammo il casello dell’autostrada per Salerno. (Estratto da “Àndropos in the world” del 30 aprile 2009)

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1) ’O pèro e ’u musso: il piede e il muso del maiale, bolliti e conditi con sale e limone

2) Gamberetti di fiume, o di fuósso, piccoli e saporiti, diffusissimi nell’Agro, perché il fiume, un tempo, ne produceva in gran quantità. Etim. Da gambero, per perdita di consonante e suffisso d’avvio g-ammar-iéllo

3) Méscete: foglie di ortaggi o di verdura solitamente di rape o di broccoli che venivano fritte in padella, mescolate a pezzi di pane di granone o bianco. Siritìccio, nap. seretìcce: stantio, raffermo; metaforicamente: persona non sposata avanti negli anni, arcigna. Etimologia: dall’agg.latino serus, con ampl. e suffisso d’avvio, come l’italiano malaticcio.

4) Sciummo, dal latino flumen, con metamorfosi di fl > sc palatale, come scióre, fiore.

5) ’Mpurgatòrio, bollito nel sugo di pomodoro, dove si annega il bianco del baccalà.

6) Arricriàti, da arricriàre: rallegrare, allietare, deliziare; usato anche nella forma addecrià. Dal latino ad – recreàre, ricreare, ristorare, rinascere. Dal sanscrito crìar, da cui anche il termine creatività. 7) Ngi sìmme allattàte: un virtuale riferimento alla sazietà e soddisfazione del bambino che viene allattato,

sottintendendo la caratteristica completezza dell’alimento, massimamente quello materno.

8) ’U zinziniéllo: diminutivo di zinzìno, parola onomatopeica, che si rifà al rumore dell’inghiottire, riferendosi al

mangiare ed al vino. Sicuramente il riferimento popolare è all’apparato bocca-gola.

9) Pirìmma – muffa; pallore; tené ’a faccia r”a pirìmma essere magro e pallido in viso; essere privo di colorito per scarsa nutrizione. Ovviamente, concettualmente complesso: implica anche la sessualità insoddisfatta, riferendosi pure a qualunque tipo di stagionatura, anche morale e caratteriale. Dal latino volgare per-imen, cioè perire più suffisso collettivo imen, come sfaccìmma, zuzzìmma.

10) No’ potéveme chiure vócca: affine al rimanere a bocca aperta per l’eccezionalità dell’evento, impropriamente inteso come necessità di tessere elogi di un evento positivo.

11) La fontana dalle tre bocche che si trova a piazza Garibaldi: in altri tempi, in occasione delle festività natalizie, la zona era molto frequentata da paesani e forestieri che facevano rèssa per acquistare anguille, capitoni ed altre

specialità ittiche.

12)’U zzuffrìtto: per soffritto intèndesi parte del maiale cotto in umido, con pomodoro piccante.

13)’A scaròla ’mbottonàta o attaccàta : scarola imbottita con capperi, olive ed acciughe. Etimologia: da in più buttem, tardo latino= botte, da cui in butt-ul- are, riempire.

14) Sarachiello: diminutivo di saràca, aringa; salacca. Hai fatto marènna a sarachiélle. ….e c’’a ’nzìria ‘i Masaniello faie marènna a sarachiéllo. (N.C.C. P. ’O cunto ’e Masaniello). Papàvelo: peperoncino.

15) L’acqua va rint’’e spalle!: il convincimento che l’eccessivo bere l’ acqua facesse male era dovuto al costante bisogno del vino, nel duro lavoro dei campi, continuamente a contatto con l’umido ed il pericolo delle inondazioni del fiume Sarno

16) Mò nge sceppàmme ’na mòla: metaforicamente, il pagare sarebbe doloroso come l’estrazione di un dente.

Ovviamente, il riferimento è ad un tempo in cui l’estrazione veniva fatta da cavadenti, che erano anche chiamati per il taglio dei capelli ed il ricorso all’ uso delle sanguisughe. Il tempo storico è il Medioevo, ricco di personaggi che svolgevano mansioni importanti, come il becchino.

17) Tutto fummo e niénte arrùste: l’espressione sottolinea la carenza di contenuto, come coloro che si accontentavano del fumo dell’arrosto che mangiavano i ricchi.

18) A spaccavàsule: il gioco consisteva nel lanciare le monete e vinceva chi andava più al centro della lastra di basalto.

Un pensiero su “Quando l’arte dei sapori diventa storia

  1. Davvero una ricerca molto interessante, “condita” – è proprio il caso di dirlo – con sapiente ironia, con padronanza della materia e utile anche per gli studiosi di Antropologia Culturale: l’alimentazione secondo me può dirci tanto sulle abitudini di una popolazione, di un’etnia o di un determinato Paese, anche riguardo pratiche religiose e/o di magia urbana…
    Bravo l’autore!

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