Narrativa: tra i ricordi di Roberto De Luca

Riceviamo e pubblichiamo a  capitoli

IL CAVARELLI

 

Roberto De Luca

Silla di Sassano, Dicembre 2008

1.   Le rane

2.   La morte del Cavarelli

3.   Acqua sporca

4.   Epilogo

 

 

Vi racconto una storia che inizia un giorno d’estate di quarant’anni fa. Una storia moderna e antica allo stesso tempo; una storia che potreste raccontare ai vostri bambini prima di metterli a letto la sera.

 

 

  1. Le rane
  2. Eravamo ragazzi, un gruppetto di cinque scalmanati di paese che attendevano l’estate per riscoprire il gusto della libertà quasi assoluta vissuta nel rassicurante paesaggio della nostra vallata. Un amico d’infanzia di Genova soleva trascorrere le sue vacanze nel nostro paesino di campagna. Restava con gli zii per tre lunghi mesi, che per noi sembravano trascorrere in modo relativamente rapido, come per uno dei gemelli di Einstein, quello che resta sulla Terra; eravamo così impegnati in mille e mille attività che i ritmi biologici sembravano diventare essi stessi più rapidi. Era un esperto di bici, le riparava e le metteva a punto benissimo; e così, col suo arrivo, iniziava la nostra stagione degli scorrazzamenti per le strade di campagna, in questa vallata ricca di corsi d’acqua. In quell’estate particolare Sergio (così si chiama questo ragazzo, ormai persona adulta come tutti noi, perché forse non ha mai voluto salire sull’astronave dell’altro dei due gemelli di Einstein) insieme a tutti i suoi amici del posto, me compreso, era incuriosito dalla fauna acquatica e così prendemmo a ricercare nei fiumi tra le varie forme di vita, anche quella più strana. Ricordo che quell’estate portai a casa delle uova di rana, nelle mie stesse mani, per metterle in una piccola pozza che si era formata vicino casa per una perdita non riparata. La perdita non fu notata in tempo utile quell’estate e le uova si schiusero. Ancora ricordo le maledizioni dei miei genitori e dei nostri vicini, perché i girini sopravvissero tutti e si tramutarono in rane, tante rane. La sera gracidavano in coro. Per me era un armonico canto, che ascoltavo ben volentieri prima di andare a dormire, stanco dopo una giornata di attività all’aperto. Iniziavamo intorno alle nove, dopo la colazione, tornavamo mediamente sporchi a pranzo, uscivamo subito dopo, per tornare la sera prima di cena. Bisognava ripulirsi bene prima di andare a letto, altrimenti le lenzuola avrebbe svelato alle nostre mamme tutte le volte che eravamo venuti a contatto diretto con la natura attorno a noi: terra, acqua, erba e vegetazione varia. E quando una mattina vidi il nostro vicino prendere a calci quei minuscoli animali, ancora non adulti, allora mi resi conto che quel canto notturno non doveva far piacere proprio a tutti. La perdita d’acqua fu poi riparata, la pozza si prosciugò e le rane superstiti trasmigrarono, anche con il mio aiuto, nei corsi d’acqua vicini. Avevamo paura dei serpenti. Le salamandre ci facevano un po’ schifo e non le toccavamo mai. Le rane no. Le rane piacevano a Sergio e piacevano, di riflesso, anche a noi, forse perché erano esseri saltellanti, proprio come l’intera combriccola. E le rane ce le ritrovavamo in tutti i rivoli, sapientemente mantenuti sgombri da sterpaglie dai contadini del posto, perché le loro acque potessero rendere i campi produttivi durante la lunga estate. Questi rivoli erano alimentati dai fiumi e non era raro in essi scorgere sardine di acqua dolce, le stesse che riuscivamo a vedere dalla sponde del fiume Cavarelli. Sergio era rimasto affascinato, quell’estate, da questo fiume tranquillo. E così lo seguivamo volentieri sulle sponde del Cavarelli (era lui che esprimeva dei desideri e noi sempre pronti ad esaudire le sue volontà, come perfetti ospiti). Le nostre bici erano abituate a percorrere strade di campagna con grosse buche. Se qualche ruota si bucava o qualcosa non andava, c’era Sergio con noi e quindi stavamo tranquilli: non avremmo mai fatto ritardo per il pranzo o per la cena. Quando capitava, però, molti di noi incorrevano nella punizione estiva di rito, il divieto dell’uso delle bici il giorno successivo. Anche una caduta poteva lasciare qualche segno impresso sui nostri ginocchi e provocarci una pausa temporanea dalle attività estive. Così diventammo abilissimi navigatori su quelle buche che sembravano delle grosse onde marine. Erano le strade che costeggiavano il fiume: solo un minimo accenno alla carreggiata e poi erbacce e buche. Per quelle strade scoprimmo la fauna acquatica del Cavarelli. Erano trote che saltavano (anche loro!) dal pelo libero dell’acqua di tanto in tanto, se aspettavi pazientemente e in silenzio presso le sponde del fiume. Erano tinche nere che si confondevano con i fondali; erano placide carpe e piccoli triotti; anguille sguscianti, per noi assimilabili a serpi; rane e salamandre, e infine quei meravigliosi gamberi che non sapevano nuotare come i pesci normalmente fanno. Esseri primitivi e rozzi, ancora coperti di corazze medievali, ma attenti guardiani della loro incolumità quando ci mostravano le loro chele in acqua. Quell’estate imparammo a toccarli, a prenderli, a tirarli fuori dall’acqua per vederli da vicino, nei secchi che utilizzavamo per questi esperimenti e che portavamo appesi ai manubri delle biciclette. Qualche esemplare fu trasbordato nella pozza delle rane e poi nel fiumiciattolo vicino casa. La tecnica per prendere i gamberi è semplice: si preme dall’alto sul collo, immobilizzando le chele per non farsi mordere. A settembre, con le prime piogge, dovemmo ricorrere all’utilizzo del ping-pong della parrocchia per non tornare a casa zuppi, col rischio di rimanervi anche il giorno successivo, nonostante fuori fosse ritornato il bel tempo. I libri di scuola li avevamo dimenticati. La nostra grammatica era solo fatta di forcelle e di ruote, di rane e gamberi, di strade sconnesse, di alberi e campi. A metà settembre il papà di Sergio tornò in paese per prendere suo figlio e portarlo di nuovo con sé a Genova. Ci si salutò come credo abbiano fatto i gemelli di Einstein. Da quel momento per noi il tempo avrebbe avuto una nuova cadenza, nuovi ritmi, scanditi dalle interminabili giornate trascorse a scuola. L’anno successivo Sergio portò altre novità da Genova e sempre nuove tecniche per rendere più efficienti le nostre bici. Conosceva le barzellette che ascoltava nei bar e noi lo ascoltavamo per ore, quando le raccontava con quel suo strano accento, che imparammo a riconoscere bene. Ma era trascorso un anno e avevamo già visto tutto del Cavarelli. Così Sergio decise che era giunto il tempo di esplorare altre cose.

2.        La morte del Cavarelli

Questo fiume periodicamente pretende attenzione da me e dalla mia famiglia, formata da due adorabili bimbe e da una premurosa moglie. Abitiamo poco distante e per questo ne seguiamo l’evoluzione nel corso degli anni. A volte ci sembra ci parli, a volte sembra quasi urlare il suo dolore. Col tempo il degrado ambientale della vallata, infatti, ha profondamente segnato questo fiume che nasce nel nostro paese e percorre una parte del Vallo di Diano, prima di immettersi in uno dei canali attigui al Tanagro. I primi a scomparire sono stati i gamberi, sensibilissimi indicatori dello stato di salute di un corso d’acqua. Poi, man mano, la vita è venuta a mancare. Qualcuno sapeva di questo mio attaccamento a questo fiume. Nessuno poteva sospettare, tuttavia, quanto tempo ho trascorso sulle sue sponde ad ammirare la sua vitalità quando era esso stesso in salute e non minacciava la salute di noi umani con le sue acque fetide. Nessuno poteva sapere che ho letto la Gerusalemme Liberata, in un impeto di giovanile ardore, facendomi a volte accompagnare dal suono profondo che fa l’acqua quando si avvolge in un gorgo nei pressi di un tratto tortuoso del letto. L’episodio più doloroso si è verificato una mattina del maggio del 2003. Un venerdì, ricordo. Arriva una telefonata a casa. Non erano ancora le sette ed io ero a letto. Mia moglie mi passa la telefonata con fare preoccupato. Conosco la persona che sta chiamando e cerco di immaginare, per un attimo, che cosa sia successo. “Professò, correte, il fiume è nero come l’inchiostro”, mi dice Francesco, che non aveva mai telefonato prima e non vedevo in giro da tempo. Avreste pensato anche voi ad uno scherzo; come può un fiume diventare nero? Gli chiedo di dirmi, con calma, cos’era successo. E lui: “Venite, venite a vedere, se non mi credete”. Infilo allora i pantaloni e indosso un maglione e una giacca a vento, perché al mattino c’è umidità, e mi avvio a piedi da Francesco, che mi aspetta sul ponte. Mi affaccio e vedo l’inchiostro di cui Francesco mi aveva detto. Gli domando cosa sia successo e lui fa spallucce. Lo so, anche se lui lo sapesse, non mi direbbe mai la causa di questo disastro. Fa parte del senso di appartenenza di queste persone alla società del posto. Se parli contro di uno di loro rischi di diventare un escluso: si interrompe quella catena di conoscenze e di reciproci inviti a matrimoni e feste, si viene indicati come uno spione, si esce, insomma, da quel circuito sociale a cui tutti sono abituati e di cui tutti vogliono sentirsi parte, anche con quel cenno di saluto che ciascuno vuole per sé per strada dall’altro. Un senso di appartenenza che sta diventando, per questi inconsapevoli cittadini, la loro, la nostra gabbia mortale. Non parlano nemmeno se vedono giovani e bambini ammalarsi sotto i loro occhi e morire. E’ l’omertà che teme anche le ritorsioni dei potenti. Teme chi, con grosse auto nuove fiammanti, circola per le strade derelitte di queste contrade con la tracotanza solita di chi sa di possedere denaro (e solo quello!). Capisco Francesco, pur non condividendo il suo modo di porsi davanti al problema, ma al momento mi addoloro per quello che vedo: pesci morti sull’acqua nera; non tanti, perché quel fiume aveva già conosciuto, in precedenza, decimazioni periodiche. Noteremo, tuttavia, il comportamento di Francesco. Non chiama la Polizia Municipale, non chiama i Carabinieri del paese, chiama me. Francesco sa che sono l’unica persona che potrebbe fare qualcosa per quel fiume, perché ne ama il suo scorrere tranquillo e ne ricorda gli antichi splendori. Francesco, però, ignora che non faccio parte delle istituzioni e che, chi ne fa parte, mi vede come un rompiscatole, una persona da tenere lontana dalla vita amministrativa del posto per non creare eccessivo disturbo a chi fa affari con la politica e fa politica, poi, con gli affari che porta a termine. Non sa nemmeno che all’epoca ero stato chiamato a ricoprire il ruolo di responsabile regionale in un’associazione per le tutela della legalità e dei diritti dei cittadini. Non sa, e nemmeno io lo sapevo, che da lì a poco avrei lasciato quel ruolo per diventare responsabile locale della sede CODACONS di Sala Consilina, presente sul territorio proprio dal luglio del 2003. E però sa che, una volta che mi avesse svegliato e letteralmente tirato fuori dal letto, io mi sarei dato da fare per chiamare Carabinieri e giornalisti, nel disperato tentativo di salvare quel fiume. Sono minuti interminabili di attesa. La stazione dei Carabinieri apre alle otto e il 112 dice di non poter intervenire. Nessun giornalista, tra quelli che conosco, è reperibile a quell’ora del mattino. La Polizia Municipale afferma che ha dei turni da rispettare, quando riesco finalmente a parlare con qualcuno: non possono venire, riconoscendo così anche il mio ruolo di rompiscatole. Però poi la caserma dei Carabinieri risponde e arriva una pattuglia, che allerta gli organi di controllo. Arriva finalmente anche la Polizia Municipale. Alle undici circa arrivano i giornalisti e gli operatori dell’ASL e dell’ARPAC, che dicono, quando le acque sono ormai non più così nere come alle sette del mattino, ma ancora torbide, che il deficit di ossigeno è vicino al cento per cento. Nessuna forma di vita si è salvata. E’ stato quel venerdì il giorno in cui è morto il Cavarelli. Su questa storia ho portato di persona una lettera in Procura presso il Tribunale di Sala Consilina, una denuncia contro ignoti. La Procura, dopo le indagini di rito, ha provveduto ad archiviare il caso. Non conservo una foto del fiume in quel giorno per farvi vedere come Francesco non avesse torto a dirmi che il fiume scorreva nero come l’inchiostro. Immagino, però, ci siano testimonianze di tanti pubblici ufficiali a confermare quanto dico. Eppure, la gente del posto, ad eccezione di Francesco, forse, continua a vedermi come uno strano marziano. Francesco mi capisce, come io capisco la sua omertosa reticenza, perché la sua casa è proprio sul fiume e forse anche lui, come me, ha imparato ad amare quelle acque, ancorché oggi siano tanto sporche da far vomitare.