Natale: paese che vai, usanze che trovi…
Annamaria Noia
Il Natale è probabilmente per molti il periodo più bello, appagante e ricco di significati dell’intero anno solare. Il 25 dicembre è data importantissima anche per i nostri “antenati”, o “patres” latini, ma anche celti. I Celti infatti piantavano un albero nella foresta per ogni nuovo nato, anche e non solo durante il loro capodanno, o “semain”, dal 31 ottobre: questa è la tradizione dell’albero di Natale. Ricordiamo, a proposito dei Celti, la derivazione di Halloween, che proviene dai Paesi anglosassoni, e si traduce come termine dall’inglese “Hallo, witch”: “Ciao, strega”, oppure da “All allows eve”: “Festività di tutti i Santi”. Invece i Latini festeggiavano il 25 dicembre come celebrazione del “Sol invictus”, il Sole invincibile, festa che si collegava come il Natale al solstizio di inverno; si rimembrava il Dio Sole relativo al culto precristiano di Mitra. Difatti molti mitrei, templi dedicati a tal culto, sono poi stati adibiti a luoghi pubblici per la confessione cattolica, sia le grotte che le chiese. Vi sono poi tradizioni classiche, antropologiche antiche altrettanto, non svuotate di valori laici e religiosi pregnanti, accanto a tali feste orfiche e pagane, trapassate al Cristianesimo: il mondo classico è in preparazione al mondo cristiano, come affermava il sommo Alighieri nelle sue opere più belle, “La (divina) commedia” e il “De Monarchia”; in quest’ultima si parla dei “due soli in Cielo”, il papa e l’imperatore. Quest’ultimo doveva però, pur essendo alla pari con il papa, una “devozione filiale” al papa stesso. Perciò Dante ha scelto Virgilio come guida nei regni ultramondani di Inferno e Purgatorio, anche perché Virgilio è nato nel secolo di Cristo redentore, e ha perfino profetizzato la nascita di un “puer”, un ragazzo, un fanciullo che avrebbe risollevato le sorti di Roma. Nel Paradiso c’è invece Beatrice, rappresentante la sollecitudine e la solerzia della Carità. Del Paradiso ricordiamo la stupenda preghiera di S. Bernardo alla Vergine: “Vergine Madre, figlia del tuo figlio, umile e alta, più che creatura.”Tra le tradizioni più rappresentative, sia in generale che nella fattispecie delle piccole zone che conosciamo, vi è il presepe. Esso non è stato proprio inventato “di sana pianta” dal poverello di Assisi, S. Francesco, che però lo propose per la prima volta “vivente” nel 1223 in quel di Greggio, bensì si trovava nell’Ufficio di preghiera contemplativa della Beata Vergine Maria.Però al serafico padre non va tolto il merito di averlo perlomeno divulgato, diffuso. Apriamo ora una parentesi, per un breve excursus sul presepio artigianale ed artistico napoletano, soprattutto quello di S. Gregorio Armeno. La via di Napoli propone infatti una vasta gamma, una intensa varietà di alta qualità e peculiarità, specificità, di personaggi e pastorelli di ogni forma, materia (soprattutto argilla, ma anche cartapesta), e foggia. Già, i pastori di S. Gregorio Armeno sono particolari, per la pregevole fattura e perché sono attuali, dei tempi politicosociali di oggi: c’è la Lecciso, ci sono Berlusconi, Obama, i calciatori del Napoli. Ma anche a Salerno questo mondo presepiale si può ammirare nell’impegno costante della bottega “S. Lazzaro” di Peppe Natella, patron dei personaggini e delle capanne artisticamente realizzati con eccelsa perizia e non negando l’antichità e la levità di materiali e produzioni.Il presepe napoletano così com’è ricorda un antico retaggio divulgato da S. Gaetano Thiene, con i pastori di terracotta tra cui spicca “Benino” o “Beniamino”, ossia il dormiente, che rappresenta la speranza e la fiducia. Anche a Mercato S. Severino (la frazione Pandola – e non solo – è rinomata per il presepe vivente, organizzato da molti anni) e in tutta la Valle dell’Irno, come pure a Penta, quella del presepe è tradizione consolidata. A S. Severino c’era anche fino a pochi anni fa il “fucarone”, in alcune popolose frazioni. Il “fucarone” o “fracchie” era costituito da legname accatastato per bruciare le “streghe” (da allontanare) dei malefici e del malocchio, come voleva la consuetudine dei campi e dei raccolti, nella magia urbana d’altr’epoca. Il “fucarone” si riproponeva poi in delle zone a S. Antonio Abate (17 gennaio) e a Piazza del Galdo (altra frazione) il 19 marzo, a S. Giuseppe. A Mercato S. Severino, oltre quindi al falò apotropaico (cioè di allontanamento degli spiriti immondi nei campi dell’agricoltura “biologica”, “contadina” – quante antiche essenze fragranti di pane e sapienza!) vi era l’attenzione al presepe. Ancora al giorno di oggi, il propositivo circolo “Vanvitelli”, operante da pochi anni sul territorio, ha ripreso l’iniziativa di premiare i presepi più artistici e simbolici, manufatti da parte di giovani, adulti e scuole. Ma anche nel Fiscianese, a Penta la frazione già citata prima, c’è ogni anno, da un po’ a questa parte, la fatidica rassegna/appuntamento de “Il presepio… momento d’arte, al centro del focolare domestico”, un concorso aperto a tutti gli enti della zona di Fisciano e frazioni, nonché a scuole, associazioni e privati del territorio. Sempre dalle nostre parti, nelle frazioni delle cittadine della Valle, vi sono manufatti grandi e piccoli, mostre, raccolte internazionali o non. Ricordiamo, almeno per la cronaca, il presepe – visitatissimo – di Pietrelcina, nel Beneventano, ove è nato padre Pio e la mostra permanente di Montevergine. Tra i retaggi più belli, a S. Severino e nella Valle come in qualsiasi altro luogo, v’è quella dei regali, immancabili sotto l’albero, anche consumisticamente. Le “strenne” di Natale derivano il loro nome dalla dea latina, etrusca e sabina “Strenua”, protettrice della salute, da cui questo termine e l’avverbio “strenuamente”; la dea ha qualcosa a che fare con le foglie di alloro per cucinare anguille, pesce e capitone. Precedentemente alle strenne latine, i Celti hanno dato origine all’augurale baciarsi sotto il vischio, pianta sacra ai druidi (sacerdoti celtici) che con un falcetto la raccoglievano per farne pozioni. Si ricordi il cartoon “Asterix”. A proposito poi delle leccornie da mangiare, a Mercato S. Severino e nelle zone limitrofe ecco i vari succulenti e prelibati piatti sia della Vigilia, il 24, quando si mangia di magro, ci si ciba di pesce dalle 18 in poi a S. Severino, non a mezzogiorno o alle 13; sia del 25 dicembre, a Natale. La Vigilia si mangia: spaghetti con pomodoro e vongole o linguine ai gamberoni; capitone con lauro, al forno e fritto, simbolo dell’orobùro, serpente che si morde la coda segno di longevità e dell’Infinito; polpette di baccalà, baccalà fritto, baccalà con le pupacchielle, broccoli all’insalata, frittelle alle acciughe (“ruospi”), struffoli, in Abruzzo il parrozzo, da “pan rozzo”, calzoncelli di castagne, panettone, pandoro, mustacciuoli (il dolce preferito da S. Francesco, che in punto di morte lo volle assaggiare), fatti originariamente col mosto di vino e dalla caratteristica forma romboidale; il torrone, o “le ossa dei morti”, poiché si regalava il 2 novembre fino all’11 novembre, S.Martino (protettore dei “cornuti”); i rococò, dal francese “roqueille”, “conchiglia”, tipici della cucina napoletana; pasta di mandorle, frutti di marzapane, altre specialità regionali come gli “scaldatelli” o “scauratielli”. Il 25 si mangia brodo con ravioletti, o tortellini, o cappelletti. Il brodo deve essere necessariamente di cappone, per rispettare le ricette antiche; il cappone stesso, ripieno di uvetta, fegatelli, pinoli, uova e salame, costituisce il secondo piatto. Poi gli altri piatti come per la Vigilia. Invece a Pasqua il brodo deve essere di gallina nera. Il cappone viene preparato già dal 26 luglio, a S. Anna: i polli meno buoni per Natale venivano tagliati in pezzi e fritti nello strutto (‘nzogna o sugna). Ecco come nasce il cosiddetto pollo “scucchiato”. Il Natale come festa di inizio anno dunque, come l’Avvento coincide col nuovo anno liturgico. Secondo la leggenda e il calendario prima giuliano (Cesare), poi gregoriano (S. Gregorio) il giorno più breve, con poche ore di sole è il 13 dicembre, S. Lucia, non il 21, come noi sappiamo oggi essere. S. Lucia, patrona della vista perché come forma di tortura (palma del martirio) le furono cavati gli occhi, è definita “sorella” del “vendicativo” S. Aniello, il 14 dicembre, per ciò che riguardava i miti e i riti della terra contadina. Si dice infatti che chi si reca a Messa per S. Lucia e non per S. Aniello, suo “fratello” perché ricorrenza vicina, sarà perseguitato dalla sfortuna e potrà avere la gobba (che i contadini “contraevano” nei campi stando sempre chini). La figura tipica del Natale consumistico è Babbo Natale. Nonostante egli, vestito col manto rosso, sia un’immagine legata a una trovata pubblicitaria da parte della Coca Cola, in realtà il suo “culto” ha origini antichissime, tra l’Armenia (Myr) e i bizantini: è Santa Klaus, o S. Nicola da Bari, che porta doni ai bimbi buoni. In Sicilia i doni li porta S. Lucia. Nella notte tra il 12 e il 13 dicembre i bambini siciliani pongono sulla finestra un pugno di farina e un bicchiere di latte per la santa e il suo asinello, che recano i regali e riposandosi mangiano la farina e devono il latte. A Natale a Mercato S. Severino vi sono dal punto di vista aggregativo e socioculturale le iniziative di “Vivi Natale”, un cartellone di manifestazioni festive e non solo, quest’anno riproposto per l’ennesima edizione, con cabaret, cinema per ragazzi, animazione anche nelle frazioni, corali, concerti, tra cui famoso è quello di capodanno, la sera del primo gennaio; eventi e manifestazioni a iosa. Non manca poi il classico “struscio” in mezzo alla strada, in quanto Mercato S. Severino è centro commerciale naturale, con lampadine, addobbi, alberi di Natale e tante luminarie (a Salerno le luminarie sono pronte da ottobre).