La vera riforma della scuola

Aurelio Di Matteo

La pregnante e significativa riflessione di ieri della Direttrice Rita Occidente Lupo sui giovani d’oggi e la violenza dei super eroi nei quali si identificano, mi induce a riprendere il problema insoluto di una vera Riforma della scuola e di un predominante clima culturale odierno che non costituisce argine e freno, ma la cornice in cui la violenza s’inquadra.

Il problema di fondo è questa diffusa “cultura del rischio”, connessa ad una concezione del tempo tutto assorbito dal presente. Ciò comporta nei giovani un vivere ed un comportamento atemporali, fuori dalla storia, senza passato (valori e regole condivisi) e senza futuro (progetto e costruzione dell’essere persona in una comunità di relazioni).

Più che riprendere, come hanno fatto un po’ tutti i Ministri ed anche l’ultimo, il famoso cacciavite di un suo predecessore, l’insignificante Fioroni, una vera riforma della scuola deve partire da qui, da un’operazione culturale e politica o, piuttosto, di politica culturale che abbia a base la speranza come costruzione di un progetto, come dimensione del futuro, come radicamento nella storia, come ieri che si trasforma in domani attraverso l’oggi.

Tutto il dibattito intorno alla scuola, invece, si riduce a modificare gli esami, ad eliminarli o crearne di nuovi, a discettare su lassismo o severità; a chiedere, a fronte di gravi insufficienze nelle conoscenze matematiche e scientifiche, più ore per queste discipline e meno per le umanistiche; a disquisire sull’utilità del tempo pieno o sull’unità in più o in meno di alunni per classe, sull’assunzione dei docenti precari, tali più per la formazione professionale che per la stabilità del posto. E via di questo passo con annunci, proclami ed interviste chilometriche su giornali ossequienti seppur prestigiosi.

Sarà l’effetto del riscaldamento del globo terrestre, ma appare sempre più un dibattito fuori dalla temporalità, come l’imperante pseudo cultura (a)politica ridotta a schermaglia gallinacea del botta e risposta dei salotti televisivi, invece che essere una riflessione seria su che fare per i giovani e quindi per la scuola, almeno per i prossimi 29/30 anni.

Senza una politica culturale, come presupposto e come finalità, non ci sarà mai una riforma della scuola. È stata questa la forza della riforma Gentile, che a distanza di un secolo resta ancora un punto di riferimento con il quale bisogna fare i conti, nonostante il ricorrente tsunami prodotto dal sessantotto in poi. Lo aveva compreso bene Luigi Berlinguer che, nel suo libro-memoria sull’esperienza come Ministro dell’Istruzione, definì il Gentile “vero riformatore” e attribuì il fallimento della sua Riforma proprio alla mancanza di una politica culturale della sinistra e di un’analisi del reale per valutare il fabbisogno culturale della società che si trasformava, una sinistra che aveva creduto che la politica si consumasse essenzialmente in cortei, documenti, dibattiti, propaganda, senza misurarsi con il fare, il costruire, il realizzare. Allora come oggi e ancor di più.

Una vera riforma scolastica è una risposta alle domande: quale cultura per il futuro del Paese e per dare un futuro ai giovani? Quale cultura per formare personalità che si sentano inserite in un passato e proiettate in un futuro, che facciano scelte, piccole o grandi che siano, responsabilmente e criticamente? Gli ordinamenti, le modalità attuative ed organizzative, la metodologia e la didattica, discendono dalla politica culturale che si pone a base della riforma, oggi per una scuola adeguata ad una società virtuale e della comunicazione e ad una economia sempre più basata sul lavoro intellettuale.

Il sistema scolastico odierno ha, invece, come finalità la formazione del cittadino per una società industriale e per una società dei consumi. Si tratta ora di formare e di insegnare a leggere la Comunità virtuale; come prima, si diceva, a leggere la realtà e la società circostante; di passare dall’alfabetizzazione della tecnologia al problema dei suoi contenuti, come fruitori e come produttori. Ogni computer in rete, infatti, è non solo una potenziale biblioteca, ma soprattutto è una grandissima potenziale tipografia multimediale. Questa è la nuova Comunità per la quale occorrono una nuova scuola ed una nuova cultura.

Indipendentemente se i docenti siano formati per formare personalità per una comunità virtuale, la scuola attuale appare sempre più come un non-luogo transitoriamente occupato da docenti e alunni, i primi fornitori (erogatori) e i secondi fruitori (consumatori). La scuola progetta, determina e offre con il POF – diventato PTOF a mo’ di legge di stabilità – i percorsi, gli obiettivi, i criteri valutativi. Allo studente-cliente non resta che conformarsi o no a tale offerta predeterminata. Ancora oggi quando si discute di riforma, sia gli eredi del marxismo sia quelli del liberalismo, non si discostano da questa concezione tipicamente ottocentesca secondo cui la scuola debba predefinire, indicare ed offrire obiettivi e contenuti. Se ciò era valido in una società industrializzata e dei consumi, non lo è in una virtuale che non ha nulla di stabile, ma è continua comunicazione e costruzione di contenuti e di comportamenti di fronte ai quali solo il discernimento critico e la responsabilità etica sono in grado di selezionare ed organizzare in modo positivo. Allora cominciamo dal definire la scuola non più un servizio per un cliente consumatore di un’offerta; non più un obbligo; non più un non-luogo attraverso il quale una struttura sociale cerca di perpetuare se stessa per mezzo di in-segnanti, pubblici dipendenti assimilati a novelle Vestali a guardia di un moccolo spento. Concepiamo la scuola, invece, come funzione, come spazio di opportunità e di costruzione di futuro; come luogo di libero accesso per esercitare il diritto a diventare adulto responsabile. Assegniamo ad essa docenti che non siano tali solo perché iscritti in pletoriche liste di collocamento, ma professionalmente validi a svolgere la funzione di coproduttori di formazione.

Nell’attuale civiltà dell’informatica e della comunicazione, la scuola non può inseguire tutte le novità e le mode, né tutte le conoscenze. Non potrà mai farcela. Dovrebbe, e non è poco, assicurare a tutti la capacità di esprimersi, di comunicare, di organizzare il proprio pensiero e di avventurarsi verso l’ignoto, insegnando dove, come e quando cercare i libri e le informazioni, per acquisire contenuti e conoscenze. Con la continua crescita delle conoscenze a disposizione e la loro rapida obsolescenza, la scuola è destinata ad insegnare sempre meno, rispetto al conoscibile.

Per dirla con Gardner, gli studenti devono imparare ad assumersi la responsabilità della propria crescita, darsi degli obiettivi, valutare il cammino percorso, prospettare un futuro, riflettere sui propri apprendimenti per diventare produttori della propria educazione. Una scuola che ridia ai giovani il senso del futuro e della responsabilità dei propri comportamenti è una scuola che non è più specchio della società ed offerta preconfezionata di contenuti da in-segnare, ma costruzione critica di Cultura e di Comunità; che riprende la temporalità del processo educativo nell’interezza dei suoi tre momenti: la dimensione interna ( ciò che si è, il vissuto della persona, il passato), la dimensione esterna (ciò che è, il reale della cultura e degli aspetti collettivi nei quali si è immersi, il presente), la dimensione simbolica (ciò che si vuole essere, i sogni, la progettualità, la ricerca, il futuro). Una riforma della scuola non può non essere che questo: una collettiva e diffusa operazione di politica culturale quale fondamento del contenuto, del metodo e del fine del rapporto formativo.