Nella cultura greca la differenza di genere

 Aurelio Di Matteo

Nel precedente intervento sul tema, ho evidenziato come la formazione delle aggregazioni stanziali delle comunità agricole e della successiva polis comportasse il cambiamento della collocazione sociale della donna. Il cambiamento non avvenne rapidamente. Per la donna è stata una progressiva perdita della sua posizione privilegiata. Ne è testimonianza la ricerca archeologica che ha portato alla luce i resti di un insediamento agricolo neolitico del quattromila a. c., la città di Susa in Iran.

Gli scavi hanno consentito il ritrovamento di molte immagini di divinità femminili, tra le quali quella chiamata la Dea Madre in posizione di partoriente. Non sono state ritrovate immagini di divinità maschili.

Analogamente si può osservare per la religione egizia, nella quale la Dea Iside rappresentava la Madre celeste e il Dio, considerato il creatore del mondo, era ambosessi.

Non è un caso che queste due civiltà, Sumeri ed Egizi, risalenti a ridosso dell’abbandono del nomadismo comunitario e tribale, abbiano al loro interno significativi tratti relazionali di società nella quale la donna conserva ancora il retaggio delle comunità protostoriche basate sull’uguaglianza e condivisione tra uomo e donna.

Il consolidamento dell’organizzazione statale determina la definitiva scomparsa del potere femminile. In questo processo di cambiamento, viene esclusa la donna, ritenuta “incapace di pensare allo Stato”. Nascono così la società patriarcale, il matrimonio monogamico, i ruoli diversi della donna e le distinzioni, per così dire “professionali”, dei compiti da essa svolti nella società, chiaramente espressi dalla civiltà greca: moglie, etera, prostituta, schiava. In ogni caso nella “disponibilità” dell’uomo.

Con la formazione della polis e la connessa attività politica si stabilizzò la discriminante uomo-donna che dura ancora oggi e della quale si può dire che la Grecia abbia fissato i parametri, le elaborazioni concettuali e le espressioni artistico letterarie che hanno improntato tutta la civiltà occidentale fino ad oggi.

Nelle tragiche figure di Clitennestra, di Medea e di Antigone c’è la letteraria rappresentazione di un’autocoscienza che vuole emergere contro l’istituzionalità condivisa di un patriarcato fatto nomos, giuridica cogente relazione etica e sociale.

Queste tre protagoniste di altrettante tragedie, rispettivamente di Eschilo, Euripide e Sofocle, sono emblematiche sia del ruolo di sudditanza giuridica, morale e sociale della donna, sia della drammaticità che ha accompagnato ogni piccolo passo da essa compiuto nel corso dei secoli lungo il percorso dell’autocoscienza della propria identità e del condiviso riconoscimento dell’uguaglianza socio-politica.

Clitennestra è l’adultera assassina. Certo, ma le hanno ucciso la figlia Ifigenia con il consenso del marito Agamennone in obbedienza ad una ritualità e ad una ragione di Stato egoistiche e crudeli. Dentro di sé c’è il sordo dolore della madre e della donna. Qualche ragione deve pure averla se in ogni modo si vendica. Nel comportamento successivo di Clitennestra c’è la donna che si ribella alla cultura patriarcale della società greca. Oreste che uccide la madre per vendicare il padre, invece viene assolto dall’Areopago, perché uomo. E poi c’è il caso di Antigone, che difende i valori della famiglia. Vuole dare sepoltura al fratello contro i valori della polis. Creonte, il re, si oppone, perché considera Polinice un nemico della patria. Ed emette un decreto di morte contro chiunque voglia violare la sua decisione, lasciando il cadavere in pasto ai cani. Medea disobbedisce e sarà murata viva.

È qui, nella Grecia, nella culla della cultura e della civiltà occidentali che nascono, all’interno della separatezza politica del pubblico e del privato, il perdurante sentimento misogino e l’emarginante idealizzazione “domestica” della donna madre-sposa, alla quale sono debitrici le immagini della madre-madonna, della donna angelicata, dell’amor cortese e della castellana feudale.

Ad un tempo è anche qui che compaiono nelle manifestazioni letterarie, soprattutto del teatro, le grandi eroine femminile che esprimono, nel bene e nel male, nelle loro tragiche azioni i drammatici problemi delle relazioni sociali e del pensiero umano.

La tragedia, che costituisce l’espressione letteraria più importante della civiltà greca, ha al centro le grandi protagoniste femminili che rivendicano i propri diritti di donne, di madri e di cittadine di fronte all’intransigenza di un potere creato e gestito dall’uomo all’insegna di una concezione patriarcale intangibile diventata nomos.

“Se ha potere di farlo impunemente, non più io sono uomo, ma lei”. Sono le parole che Sofocle fa dire al Tiranno Creonte riferendosi alla figlia Antigone. E ancor più chiaramente e con decisione definitiva, invocando e ribadendo la subordinazione statuita dal nomos, afferma: “Finché vivo, non comanderà mai una donna.”

L’intera produzione del teatro tragico greco – ma anche quello della commedia – esprime nelle figure femminili tutti gli stereotipi che il comune sentire ha attribuito alla donna, dall’infedeltà alla sfrenatezza sessuale, dalla seduzione ingannevole all’inconscio e aggressivo disprezzo per l’uomo.

Ricordando la funzione del Coro nelle rappresentazioni – la collettività che si esprime – e il carattere di riflessione politica del teatro greco, ai fini della problematica e della autoconsapevolezza della condizione delle donne, emblematiche sono le parole del coro, costituito dalle donne della città di Corinto, in una delle più belle tragedie di Euripide, Medea:

Ai fonti risalgono le sacre correnti dei fiumi:/con tutte le cose tramuta Giustizia./Le menti degli uomini son piene di frode,/più saldi non restano i giuri dei Numi;/la fama per essi tramutasi, e lode/partisce alla nostra progenie./Onore avran le femmine: più la donnesca vita/da trista fama non sarà colpita./Desister dai cantici vetusti dovranno le Muse,

che usavan cantare la nostra perfidia./La lira ed il carme che ispiran gli Dei,/Apollo, dei suoni signor, non infuse/a noi nella mente: chè allor leverei/un inno alla stirpe degli uomini./Il volgere dei secoli narrare agevol rende/nostre e d’uomini assai varie vicende.

Le donne greche, come emerge da queste parole che Euripide mette loro in bocca, consapevoli della condizione di emarginazione, diventano portatrici di soggettività e rivendicano i loro diritti di “cittadine” nell’interezza della persona.

La cultura greca ha fissato quasi tutti i dispositivi etici regolatori della vita e del ruolo della donna nella società umana, a cominciare da Esiodo e Omero e passando per le due grandi costruzioni teoretiche di Platone e Aristotele. E in tutto è pur sempre lo sguardo maschile che ha creato le categorie antropologiche, le ha discusse, le ha rappresentate e le ha consegnate nelle conclusioni alla vita relazionale della società. E ancora oggi faticano a scomparire, emergendo nelle forme più crude del femminicidio.