Salerno: Presidente Prete su centenario di Confindustria

Il Presidente Andrea Prete in occasione dell’Assemblea Pubblica che si è svolta questa mattina al Salone dei Marmi di Palazzo di Città ha ripercorso il secolo di Confindustria.

Cento anni fa Confindustria Salerno muoveva i primi passi grazie al lavoro preliminare svolto da una figura storica dell’imprenditoria locale, Luigi Barracano che, come vice presidente della Camera di Commercio cittadina, diede vita alla Federazione Meridionale Commerciale e Industriale, la quale il 16 agosto 1919 si trasformò in Fascio Industriale della Provincia di Salerno. Il recente sodalizio immediatamente aderì all’Unione Regionale Industriale (URI) di Napoli e già nel dicembre di quell’anno a Salerno, nei saloni di palazzo Santoro, si convocarono le prime riunioni assembleari, che successivamente si terranno a palazzo d’Agostino dove era ospitata anche la Camera di Commercio di Salerno.

Certezze su chi sia stato il primo a guidare il sodalizio degli industriali salernitani non ce ne sono anche se, da un documento rinvenuto nell’Archivio di Stato Salerno, tutto fa supporre che proprio nella primissima fase ci fosse una sorta di diarchia tra Barracano per la sezione commerciale e l’ingegnere Antonio Santoro, già consigliere dell’URI, cui fu affidata la sezione industriale.

Da allora il mondo è cambiato. Non una, ma più volte e l’ordine delle cose è stato in modo permanente rovesciato. Ciò che, invece, è rimasta immutata è la nostra voglia di difendere il lavoro, i luoghi e le imprese.

Oggi siamo in stagnazione e la cosa che maggiormente preoccupa è la totale indifferenza verso la crescita zero dell’economia.

L’indicatore di attrattività Aibe-Censis è sceso quest’anno a 42,9, rispetto a 43,3 del 2018 (ovviamente in un range che va da 0 a 100). In soli 12 mesi è crollata dal 31% al 6,3% la percentuale di investitori industriali che ritiene l’Italia più attraente rispetto ad altri Paesi europei, mentre cresce in maniera vertiginosa (dal 16,7% al 60,4%) la percentuale di chi ritiene che il Paese sia diventato meno attraente.

È una nuova cattiva notizia? Purtroppo no. Noi che qui viviamo, investiamo, produciamo e assumiamo, sappiamo bene che il nostro Paese non è attrattivo nemmeno per noi italiani.

Nell’Italia degli ultimi decenni non è stato semplice fare impresa. Nessuno lo sa meglio di noi.

Lo abbiamo detto anche lo scorso anno, quando abbiamo chiesto alla politica di rimettere “L’impresa al centro” «per la tenuta del Paese».

Le aziende hanno contribuito a costruire la nostra storia, insieme ai propri collaboratori e dipendenti. Se ancora oggi esiste una manifattura forte, se esistono delle eccellenze produttive lungo l’intero Paese, se esiste il Made in Italy che tutto il mondo ci invidia, vorremmo ricordare che è merito di tutti noi che investiamo, con coraggio e passione, nelle idee e nella nostra economia.

Nonostante il clima di assedio in cui sono costrette ad operare, le IMPRESE sono da sempre al SERVIZIO del TERRITORIO.

Nonostante troppi vincoli, numerosi e spesso ridondanti adempimenti, tempi lunghi per far tutto e tasse inique, il nostro sistema ha retto un altro anno in cui l’incertezza politica è stata l’unico elemento stabile.

Entriamo nel merito. Il nemico numero uno resta l’eccesso di burocrazia, letteralmente il «potere degli uffici».

La via per comprendere quanto sia profondo questo male è una sola: provare a fare qualcosa. Il paradosso è che più si vuole fare, più ci si scopre prigionieri.

Il costo in capo alle imprese è esorbitante: secondo un recente studio (ottobre 2019) del The European House–Ambrosetti, «l’intero sistema imprenditoriale italiano spende oltre 57 miliardi di euro all’anno per espletare gli adempimenti, i permessi e tutte le pratiche burocratiche richieste dall’amministrazione pubblica».

Sempre stando all’analisi realizzata dal The European House–Ambrosetti, la produttività legislativa italiana è da primato in Europa. Nel nostro Paese si stima che ci siano 160.000 norme, di cui 71.000 promulgate a livello centrale e le rimanenti a livello regionale e locale. In Francia, invece, sono 7.000, in Germania 5.500 e nel Regno Unito 3.000.

L’impresa – è chiaro – è continuare a fare impresa a queste condizioni.

In Italia sul piano della trasparenza normativa, bisogna dire che si è fatto molto a partire della L. 241/90 alla legge Madia del 2016 e all’applicazione del c.d. FOIA (inelegante acronimo del Freedom of information Act di tradizione statunitense) che permette l’accesso generalizzato agli atti della Pubblica Amministrazione.

La semplificazione dei procedimenti, invece, appare un lavoro più complesso, e si capisce anche perché: se si aumentano i passaggi e i controlli, s’impone quella «ulteriore e necessaria» firma che il sistema non vuole cancellare.

Eppure di semplificazione le aziende ne hanno assoluto bisogno, specie in materia di finanziamenti pubblici, che per lo più funzionano come un concorso, con istanze di contributo, commissioni, verifiche, graduatorie, assegnazioni di fondi e controlli successivi. Una pratica di finanziamento parte dall’impresa, dal cittadino o dal loro professionista, e passa per decine di mani.

Non sarebbe molto meglio applicare criteri automatici per l’attribuzione del contributo, con l’aiuto della tecnologia e di algoritmi?

Abbiamo provato a censire gli adempimenti cui sono sottoposte le imprese: 22 pagine di documenti da presentare in materia ambientale, privacy, lavoro, sicurezza, export, solo per tenere conto di aree trasversali alla gran parte di esse. Atti ridondanti, spesso di difficile interpretazione, tanto che le verifiche ispettive il più delle volte non sono oggettive.

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Nella produzione – se deve esserci – di nuovi adempimenti, vorremmo che la nostra politica praticasse la lezione di metodo utilizzata da Luigi Einaudi, Presidente della Repubblica italiana: «Conoscere per deliberare». Non bastano poche settimane per un disegno di legge, se prima non si è andato a fondo nelle questioni. Quanto successo con la “plastic tax” è paradigmatico. Come si fa a pensare – per andare incontro a una giusta ed emergente attenzione verso la sostenibilità ambientale – di tassare le imprese del comparto, anziché incentivare il processo di adeguamento tecnologico?

Nel Salernitano parliamo di realtà che fatturano circa un miliardo e di almeno 5000 posti di lavoro, compreso l’indotto. In più si tratta di un settore che qui lavora molto per l’alimentare, sulla cui competitività pesa in modo determinante anche il costo dell’imballaggio (quarta gamma ad esempio).

Fortunatamente su questo prelievo non è stata ancora trovata la quadra, ma così come era stata congegnata, era una tassa scellerata che non teneva conto che le aziende già oggi pagano il contributo ambientale Conai per raccolta e riciclo di imballaggi in plastica. Una tassa sulle imprese e sulle famiglie che avrebbero visto crescere la propria spesa di circa 109 euro annui.

Analogo discorso vale per la sugar tax, o per la tassa sulle auto aziendali: ambedue colpiscono settori che andrebbero incentivati e non penalizzati.

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Come se non bastasse, nel nostro Paese la legiferazione selvaggia fa il paio con una pressione fiscale ormai ben oltre la soglia del 42%, se si tiene conto di tutte le imposizioni – dirette e indirette – che gravano sulle imprese (Imu, Tari, Ires e altre).

Non è raro infatti, alla fine dell’esercizio di un anno, tirare le somme e scoprire di aver lavorato circa 300 giorni solo per i fornitori, i dipendenti e, soprattutto, per lo Stato, senza possibilità né di godere di utili, né di programmare nuovi investimenti.

Questa condanna al presentismo non ci appartiene. All’impresa spetta la visione del futuro. Se ci impedite di guardare lontano, non andremo lontano. Né le imprese, né il Paese.

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E le misure per includere i giovani nel mondo del lavoro dove sono finite?

Siamo uno dei Paesi europei che investe meno in istruzione in rapporto al Pil, sebbene l’educazione sia la chiave per il progresso socio-economico e la riduzione della povertà a livello locale e globale. Nell’ultimo anno il tasso di abbandono scolastico dei ragazzi e delle ragazze italiane è peggiorato, raggiungendo il 14% (fonte Rapporto 2019 dell’ASviS). Bisogna invece garantire il proseguimento scolastico ai nostri studenti, costruendo al contempo Università pronte a formarli sui temi di oggi e del futuro, come l’innovazione digitale. Solo così possiamo arginare il fenomeno dei “cervelli in fuga”, riuscendo a creare un ponte efficace con il mondo del lavoro, che spesso in Italia vive una crisi legata a domanda e offerta, con le aziende che non trovano le competenze adatte alla propria attività e i ragazzi costretti ad andare via per seguire le proprie passioni.

Lo abbiamo detto all’inizio di questa relazione: al Sud, quanto al Nord, manca una decisione fondamentale dalla parte dello Stato. Quella di sostenere la crescita, investendo e sostenendo gli sforzi delle imprese anche nel trattenere i talenti.

Un Paese che non investe è destinato a perdere le sue migliori energie. Per il momento sono i giovani i primi a lasciare. Prima o poi potremmo essere noi imprese a seguirli.

 

QUESTIONE INDUSTRIALE

Tante, troppe sono le crisi industriali aperte al Mise, ma l’elemento più negativo non sta tanto nei numeri raggiunti (centinaia di casi sui tavoli di crisi), quanto nel fatto che grandi passi in avanti non ne sono stati fatti.

I dossier al MISE su Arcelor-Mittal, Alitalia, Alcoa, Pernigotti, Whirlpool, Jabil, la nostra Treofan – solo per citare i più clamorosi – sono pronti alla deflagrazione. Aziende con storie diverse, accomunate però dalla stessa nera prospettiva: chiudere lasciando dietro di sé il vuoto sociale.

Tutto questo avviene anche per quella totale indifferenza verso la crescita zero dell’economia che abbiamo detto all’inizio, di certo non imputabile solo all’attuale governo. Una mancata attenzione che viene da lontano, ma che si è acuita quando si è scelto di spostare – per meri fini elettorali – le risorse dalle imprese alle persone: leggi quota 100 e reddito di cittadinanza. Sono stati sprecati 20 miliardi, senza che questi provvedimenti fossero utili a creare occupazione o a facilitare i giovani ad entrare nel mondo del lavoro.

La riduzione del cuneo fiscale finalmente promossa da questo governo poteva essere la chiave di volta della manovra, ma si è rivelata alla fine una opportunità non colta del tutto che poco andrà ad incidere sia sui lavoratori, sia sulle aziende.

 

FRONTIERA SOSTENIBILITÀ

In questo quadro con pochissime luci e molte zone d’ombra, la frontiera della sostenibilità ci sembra una via praticabile per agganciare il futuro.

Sul terreno della sostenibilità, l’Italia sta già facendo la sua parte. Sempre più imprenditori, infatti, scelgono la strada green e lo fanno adottando un modello che fonde insieme qualità, bellezza, innovazione, rispetto dell’ambiente e coesione sociale.

I dati Unioncamere ci dicono che quasi il 25% delle imprese industriali e terziarie hanno scommesso sulla green economy, innovando. Un’azienda green su 4 ha introdotto tecnologie 4.0. In più puntare sull’economia verde paga. Queste realtà imprenditoriali hanno, infatti, una migliore presenza sui mercati esteri, assumono di più e sono più competitive rispetto alle altre.

Bene, pertanto, spingere sulla economia circolare che può essere uno dei driver per innovarsi e crescere, anche al fine di incentivare l’utilizzo delle materie prime secondarie.

Nel mentre aspettiamo di vedere come evolverà l’iter della manovra e i suoi più di 4500 emendamenti, ci auguriamo trovi accoglimento la proposta del Ministro Patuanelli di passare per Industria 4.0 dalla proroga annuale – inserita nella legge di bilancio – a incentivi triennali, meglio ancora se con le agevolazioni fiscali trasformate in un unico credito d’imposta.

Sono queste le misure che fanno bene alle imprese, che fanno il bene del Paese.

Al Presidente De Luca riconosciamo di aver raggiunto un arduo traguardo risanando i conti della sanità campana e riuscendo nell’intento di pagare i fornitori del settore farmaceutico in 38 giorni contro i 60 della Lombardia.

Ma significativi sono stati anche i provvedimenti messi in campo per le nostre aziende. Abbiamo apprezzato, infatti, la scelta di puntare su linee di incentivazione pubblica di carattere nazionale – come i Contratti di Sviluppo, quelli di Programma e il credito di imposta per gli investimenti, allargandone la portata attraverso il meccanismo del co-finanziamento – riaffermando che per la Regione l’industria è capace di svolgere un ruolo trainante per tutta l’economia regionale.

Altro caso di supporto vincente all’industria è quello nel campo della space economy, uno dei settori più promettenti di sviluppo dell’economia mondiale dei prossimi decenni che può offrire molte opportunità di business e nel quale l’Italia ha una posizione di eccellenza.

Anche qui la Regione Campania con 20 milioni di euro (PO FESR ASSE I RICERCA E SVILUPPO) è andata a integrare la dotazione nazionale di risorse, mostrando al contempo come i Fondi Europei possono essere bene impiegati per sostenere lo sviluppo delle nostre imprese.

Infine, abbiamo apprezzato la tenacia perché quel sogno chiamato aeroporto Salerno Costa d’Amalfi diventasse realtà integrata con lo scalo napoletano di Capodichino.

Ecco. Vorremmo che queste straordinarie occasioni di crescita fossero di più a livello Paese, che il respiro fosse più ampio e lo sguardo più lungo.