L’Arte come domanda su Dio

Avv. Maurizio Scorza*

La nostra società post-moderna è caratterizzata dal venir meno delle certezze, dal relativismo, dalla cultura dell’estetica senza etica. In questo contesto di “liquidità” (cf. Bauman), resiste, sia pure sotto forme diverse rispetto al passato, una cultura dell’immagine. Certo, spesso si tratta di un’immagine deformata, piegata alle ciniche logiche del mercato, superficiale, artefatta, ma è pur sempre un “culto” che va analizzato, perché attraverso l’immagine, l’arte, le raffigurazioni ancora oggi è possibile che venga trasmesso un messaggio più alto. L’arte, da sempre, sollecita una domanda più profonda, che va al di là dell’estetica e che proietta nel mondo interiore dell’artista e dell’immagine stessa, dalla quale possono nascere intuizioni che vanno persino al di là delle intenzioni dell’autore. Tuttavia, l’uomo post-moderno non è più in grado di leggere in modo integrale la vita; una visione olistica della realtà, invece, è essenziale per la lettura di un’opera d’arte. Si tratta di avere un pensiero che rimanda a un “oltre”, che comunichi un messaggio spirituale, esistenziale, e non semplicemente razionale. Senza  questo pensiero, l’immagine perde la sua forza di comunicazione, che si risolve, in ultima analisi, sulla domanda di sempre, ovvero la domanda su Dio. L’esperienza umana ha bisogno della mediazione di un “simbolo” per poter conoscere in modo “sensibile”. Nel medioevo le opere d’arte erano considerate la “Bibbia dei poveri” (Biblia pauperum); attraverso di esse, si poteva parlare di Dio alle tante persone analfabete, che mai avrebbero potuto avere accesso alle Sacre Scritture. Oggi siamo in presenza di un nuovo analfabetismo religioso, per cui l’opera d’arte ritorna come strumento utile per introdurre l’uomo disincantato della nostra epoca nella via della bellezza. Sì, perché Dio è la Bellezza assoluta («Tu sei il più bello tra i figli dell’uomo» recita il Salmo 44, con un chiaro riferimento profetico a Cristo), la bellezza che, per dirla con Dostoevskij, “salverà il mondo”. L’opera d’arte, allora, va osservata aspettando che “ci parli”. Nascono così in noi dei pensieri, delle considerazioni, dei sentimenti per cercare non solo di comprendere il linguaggio visivo dell’artista, ma soprattutto per capire, liberamente, quale messaggio l’opera comunica alla nostra vita. Si entra così nel “linguaggio” dell’opera, che sollecita memorie, riferimenti culturali e rappresentazioni psicologiche. L’opera entra in dialogo con noi e ci apre al mistero che noi siamo. E in noi c’è il mistero dei misteri, ovvero la presenza di Dio o, quantomeno, per chi non l’avverta, la domanda su Dio (Sant’Agostino direbbe: «Tu eri dentro di me e io fuori»). Il viaggio interiore è così un percorso individuale (non individualistico), che apre a una relazione con l’Altro e con gli altri.

*Diacono permanente