Salerno: incontro con Dacia Maraini “Il senso d’inadeguatezza delle donne”

Jole Stefani*

Mi capita spesso, troppo spesso, lavorando con le donne, di dover fare i conti con il senso di inadeguatezza da cui sono pervase, che è all’origine e alimenta la loro dipendenza affettiva, la bassa autostima, l’amare troppo e l’amarsi poco, il sapersi accontentare delle briciole, la tendenza ad autosacrificarsi, a ricercare l’approvazione ed il consenso altrui, l’accettare di essere maltrattate, in vari modi, il rinunciare ai propri sogni, alle proprie ambizioni.

Il punto di osservazione da cui sono sempre partita, nell’affrontare e curare le profonde cicatrici che il sentimento di inadeguatezza scava nella carne di noi donne, è stato sempre individuale, legato cioè alle loro personalissime storie di vita. Andavo con loro alla ricerca del punto preciso in cui quella faglia si era aperta nella loro psiche, finendo con il “guastare” ciò che sarebbe venuto dopo, ipotecando pesantemente il loro futuro, il loro diritto alla felicità.

Fino a ieri, quando al Salone dei Marmi di Palazzo di Città di Salerno, si è tenuto l’incontro pubblico con la scrittrice Dacia Maraini, ospite dei clubs Inner Wheel e Soroptimist.

L’occasione è stata la presentazione del suo ultimo romanzo, “Corpo felice. Storie di donne, rivoluzioni e un figlio che se ne va”, edito da Rizzoli, un romanzo autobiografico in cui la Maraini racconta la sua mancata esperienza di maternità.

La Maraini, intervistata dalla regista salernitana Maria Giustina Laurenzi, inizia a parlare di giustizia, di etica, della violenza dei nostri giorni, dell’importanza della conoscenza e di tanto altro ancora ma c’è la donna al centro di questo incontro, e c’è il senso di inadeguatezza che, storicamente la connota.

Dacia Maraini parte da molto lontano, dalle società matriarcali, dal mito greco, da Adamo ed Eva per ricostruire il percorso che ha portato la donna ad assumere un ruolo marginale nella società, quello dell’eterna infantile adolescente, della fattrice, dell’incubatrice del figlio dell’uomo, di oggetto che si possiede e la cui proprietà passa dal padre al marito in virtù di un contratto di compravendita, com’è nel destino di tutte le “cose”.

Nelle società matriarcali il mistero della vita è nelle mani della donna, ed è la “prima donna”, Eva, che, mangiando la mela, rivendica il diritto alla conoscenza, ossia all’autodeterminazione e alla responsabilità personale.

Con l’età classica le cose si ribaltano. Lo racconta Eschilo attraverso il mito di Oreste che, matricida, viene condannato per il delitto commesso: uccidere la madre è uccidere colei che genera, quindi uccidere la vita stessa. Il delitto dei delitti. Oreste impazzisce, ma verrà poi assolto da un tribunale di soli uomini che stravolgeranno la storia dell’Uomo: non è la donna a generare la vita, ella è solo colei che protegge nel suo grembo il seme dell’uomo.

Il corpo della donna a questo punto è desacralizzato; la donna, da creatrice della vita e custode del sacro, diventa una “cosa”, un mezzo, mai il fine.

Da qui ha inizio il declino del genere femminile, spogliato della sua dignità, della sua umanità, dichiarata incapace di intendere e di volere, ella non può testimoniare ai processi, non è affidabile, non ho accesso alle sacre scritture, alla conoscenza, non ha un’anima.

Il sentiero dell’inadeguatezza femminile è segnato e, di secolo in secolo, di millennio in millennio, si inscrive nelle nostre menti, nel nostro DNA, per giungere inalterato fino a noi, generazione 3.0, uomini e donne che ancora stentano a riconoscere la parità, l’eguale dignità ai due sessi.

Ed è storia dei nostri giorni.

Perché ho voluto condividere con voi queste riflessioni?

Perché troppo spesso alla base del malessere e del dolore psicologico delle donne si rintraccia, come un comune denominatore, il sentimento di un disvalore ontologico. E’ alla base di fenomeni macroscopici come il femminicidio, dove in gioco ci sono, appunto, da una parte, il sentimento maschile del possesso, e dall’altra il senso di indegnità della donna, a creare un incastro perfetto.

Su un piano più individuale e soggettivo, il sentimento dell’inadeguatezza alimenta la mancanza di fiducia in se stesse, e nelle altre donne, la disistima personale, l’attacco al proprio valore, la mancanza di amor proprio, la mancanza di coraggio.

Lavorare sul proprio senso di inadeguatezza è fondamentale, perché esso arriva a permeare ogni aspetto della vita e soprattutto la qualità delle relazioni, affettive, professionali, di amicizia.

Il lavoro va realizzato su due fronti: quello sociale, a partire dall’educazione impartita ai nostri figli, maschi e femmine, e poi, non meno arduo, quello a livello personale.

A me compete il secondo: il lavoro con le donne alla ricerca del proprio spazio nel mondo. Un lavoro condotto non sull’incapacità dell’altro di notare o valorizzare le nostre risorse e competenze, ma su se stesse, sulla rappresentazione di sé. L’opinione negativa che leggiamo negli occhi degli altri è la proiezione della bassa autostima personale. La paura del giudizio altrui è il rovescio della medaglia dell’autocritica e della severità autodiretta.

L’unica via per smettere di essere giudicati e ritrovare la stima personale è smettere di giudicare se stesse e di sentirsi non all’altezza delle situazioni, cominciando da subito, già in questo momento.

Il “Corpo felice” di Dacia Maraini è forse una meditazione accurata sul senso del nostro presente ma ci dà una chiave di lettura sulle prospettive del nostro futuro.

*Psicologa e Counselor