Tra razionalità e passione: la religione laica di Giancarlo Mazzacurati (3)

Piero Lucia

Quanta argomentata e lucida amarezza in queste sue espressioni! La restaurazione appariva ormai compiuta e la forza stritolante della conservazione purtroppo riusciva a ricomporre ogni cesura! E tuttavia Mazzacurati non si rassegnava. E anzi continuava a sostenere, con tenacia, che la forza della cultura e del sapere, potentemente riportata in emersione dalla necessità della letteratura, avrebbe potuto ancora mantenere aperta e viva la contraddizione, destinata nonostante tutto comunque a riproporsi, scardinando ostacoli e barriere all’apparenza insormontabili.

Una scrittura, la sua, elegante e raffinata, e mai tuttavia barocca.

L’argomentata critica pungente, mischiata all’ironia, riusciva a graffiare, come spicchio di vetro acuminato, fin nelle pieghe più celate delle contraddizioni apparse, fin dentro i meandri più profondi e radicati del potere, riportandone con nettezza in evidenza i contorni più oscuri, perversi ed intricati. Nella sua critica ricerca lavorava, con accuratezza, d’analisi chirurgica, per individuare la responsabilità della funzione regressiva e distruttiva dei gruppi dirigenti e dominanti che, mettendo in ginocchio con la sfrenata speculazione edilizia le città italiane e avendo criminalmente drenato grandi risorse pubbliche, avevano palesato il loro vero volto, duramente e frontalmente oppositivo ed ostativo ad ogni più avanzata e razionale forma di coscienza, di operatività di prassi democratica. Come, da chi e quando era stato impedito alla grande città mediterranea, dentro l’assetto di tutto il Mezzogiorno, la messa in campo e la concretizzazione delle grandi potenzialità esistenti e dei progetti di sviluppo più virtuosi, come si era riusciti nell’impresa di impedire di esercitare un nuovo impulso nella concreta struttura del reale, quel ruolo più ampio, generale, innovativo necessario? Cosa fare, su quale energie sociali e culturali puntare ancora per recidere per sempre e finalmente quella trama?

Un intellettuale davvero colto e appassionato quindi, di acclarata competenza della letteratura italiana, europea e mondiale e immerso a pieno tuttavia nelle vicende e nei duri conflitti del suo tempo presente, per nulla aristocratica “coscienza separata”, avulsa da ciò che accadeva intorno a lui, a Napoli, nel Mezzogiorno, nella sua Nazione.

Di grande rigore in tal senso, anche attraverso la rilettura critica dei più diversi autori, la puntuale ricostruzione della storia pregressa della grande città partenopea, col suo eterno e feroce conflitto tra plebe e giacobini. La stessa plebe sempre circuita e vezzeggiata da chi, nel corso dello scorrere del tempo, s’era di volta in volta succeduto alla guida nel Potere.

E al contempo la lucida speranza che quel legame perverso potesse col tempo essere spezzato da un nuovo e potente fronte di alleanza alternativo che al nucleo centrale, operaio e industriale, unisse il meglio dell’intelligenza colta progressiva, convintamente schierata per una lunga e tenace battaglia di democrazia e di Rinascita.

Straordinario il suo rigore, etico e politico, che insisteva, contro i continui aggiramenti, soprusi e ruberie, in modo maniacale- sull’obbligo del rispetto della legalità e dello Stato di diritto, sull’imperativo della più assoluta sobrietà nella gestione delle risorse pubbliche, ponendo in special modo avanti a tutto l’intransigente difesa dell’interesse generale e collettivo.

Gli anni che seguirono, nei decenni ’80 e ’90, gli apparvero però – sempre più in chiaro- come una tragica e rovinosa parodia, dagli effetti rovinosamente devastanti, nell’immediato e poi nel più prossimo futuro, in specie a causa delle enormi responsabilità che venivano ad assumersi tanti “moderni” corifei nel trasferire alle giovani generazioni modelli e comportamenti culturali semplificati, vacui ed ingannevoli, autentici disvalori, in specie quelli di uno sfrenato e incontrollato consumismo, più che salde e positive idealità.

Lui invece restò strenuamente fedele alle proprie radicate convinzioni ed alle scelte di parte originarie, ai modi più “civili” dello stare insieme al mondo. Mantenne sempre assai vivo il gusto dell’impegno ed il fuoco della passione per lo studio, inteso come insostituibile leva vitale di trasformazione intellettuale e morale, individuale e collettiva di cui- in tempi differiti- avrebbe dovuto avvalersi l’intera società.

Perciò aveva assunto su di sé il compito gravoso di insegnare ai giovani studenti il pregio impareggiabile della capacità di tolleranza verso le altrui idee, insieme allo strenuo coraggio di difendere sempre le proprie convinzioni, con tenacia e in modo argomentato, e tuttavia al contempo senza preconcetti e dogmatismi.

Ed era, per questo suo modo di essere, per la sua naturalezza, per la dolce e squisita umanità, un docente amato e apprezzato, le cui lezioni erano sempre seguitissime, con le aule in ogni occasione assai gremite, anche in quei tempi, convulsi e appassionati, in cui la tendenza alla liquidazione semplicistica, del rapporto della “nuova” con la “vecchia cultura” tendeva piuttosto a stabilire arbitrarie cesure e contrapposti muri invalicabili. Aveva un’immediata, naturale ritrosia, e quasi assoluto disprezzo, per le tronfie certezze degli intellettuali, per quelle arbitrarie sicurezze almeno all’apparenza inossidabili. In lui al contrario si avvertiva- su ogni singolo argomento- il senso più autentico e profondo della responsabilità civile dell’intellettuale, e la coscienza della provvisorietà dei punti di approdo a cui di volta in volta si poteva pervenire. E, assieme a ciò, la coscienza intransigente della legittimità del dubbio.

La sua personale metodologia dell’operare prevedeva la sollecitazione di un confronto a più voci, durante il quale si scandagliava a fondo nell’anima del testo, con un’attenzione minuziosa su ogni particolare strofa ed ogni verso. Procedeva sempre così, a prescindere dalla fama dell’autore, con la costanza di un metodo di lavoro arduo e impegnativo la cui efficacia andava comunque riverificata accuratamente sempre e di continuo.

Era tra i pochi docenti a leggere, a valutare e a commentare, con grande accuratezza, insieme ai suoi studenti, gli scritti di autori delle diverse stagioni della letteratura ed era continuamente prodigo di consigli e di suggerimenti sui modi più idonei nell’approcciare e portare avanti una ricerca, al di là di qualsiasi appartenenza o convinzione di partenza del suo interlocutore. Appare oggi attuale, e sintetica espressione di un suo peculiare modo d’interpretare il ruolo e la funzione della letteratura, quanto ebbe a scrivere nella seconda edizione della sua “La critica della letteratura italiana”, a proposito di Carlo Salinari, a cui era stato intensamente legato nell’arco dell’attività professionale e nella vita.

Di Salinari voleva salvaguardare soprattutto, e ad ogni costo, il cuore della metodologia d’insegnamento, trasferendo ai giovani il meglio di quell’autentica lezione morale. A suo avviso bisognava attingere sempre e di continuo, a piene mani, dalle grandi lezioni dei maestri della letteratura, della filosofia e della storia.

In questa specifica occasione, il richiamo era a un arco temporale immediatamente più recente, quello del Novecento. In proposito ecco la sua opinione ed il suo significativo omaggio a Carlo Salinari e al suo metodo di lavoro.

L’impegno prevalente (di Salinari) era stato quello di avere voluto imprimere “un’interpretazione non neutrale della storiografia del Novecento, testimoniando non solo la compattezza dei risultati ma le fasi di confronto, di incertezza, di conflittualità interpretativa ed i momenti di laboratorio critico, capaci di fornire, agli occhi di giovani intelligenze in formazione, la complessità dei percorsi attraverso cui si perviene all’interpretazione critica”.

Egli (Salinari) aveva avvertito la necessità morale di “fornire utili terapie ai rischi di appiattimento su formule e slogan semplificanti, nonché utili varchi, o ponti di passaggio, tra lo stadio del panorama chiuso e confezionato allo stadio della ricerca aperta”. E prima, ripercorrendo a ritroso, in alcuni passaggi essenziali, lo storico excursus della letteratura nazionale, ripensava alla richiesta di incontro col passato, con le sue grandi voci, da De Sanctis a Croce, a Gramsci, la cui lezione era per così dire “rintracciabile in modo segmentato, sottinteso, stratificato, quasi incorporato negli strumenti della critica contemporanea”.

La rilettura della ricchissima storia letteraria nazionale doveva dotarsi, tuttavia, di strumenti sempre nuovi e più aggiornati, di moderni sistemi e metodologie d’indagine, di una critica non affidata a pochi specialisti ma alla ricca e diffusa, “popolare” intelligenza sociale.

Ci teneva perciò a precisare, dialogando innanzitutto con sé stesso come, pur restando personalmente dentro quel solco interpretativo originario in sintonia con Salinari, non poteva evitare di osservare che alle antiche semplificazioni si fossero poi sostituite nuove complessità, al punto da affermare che “…alla generazione di Salinari molte cose apparivano più nette ed essenziali di quanto non appaia alla mia, a cominciare dall’immagine stessa della storia e della funzione, in essa, di alcune grandi idee-guida, per finire con la letteratura, i suoi compiti e confini. Perciò più tagliavo il passato, più il nostro relativo presente si moltiplicava, si complicava…. ”

Il 28 novembre 1995, pochi mesi dopo la sua scomparsa, per meritoria iniziativa dell’Istituto Italiano per gli Studi Filosofici e del suo Presidente avvocato Gerardo Marotta, si tenne un Convegno in sua memoria cui parteciparono studiosi e amici del rimpianto professore.[1]

Come si è già accennato in precedenza, era distintiva e peculiare in lui l’estrema sobrietà, negli atti, nei comportamenti, nel costume, senza incertezze la secca presa di distanza “aristocratica” dalle autocelebrazioni di altri segmenti dell’intellettualità napoletana inclini, più che ad esercitare un’autentica e rigorosa funzione formativa e critica, per facile trasformismo e “gattopardismo”, a rinunciare ad essa e finanche disinvoltamente pronti a utilizzare pubbliche risorse, per sé e per le proprie conventicole e corporazioni di sodali. E invece Mazzacurati rifiutò sempre con fermezza l’idea di uno Stato piegato e sottomesso, nelle sue diverse articolazioni, ad interessi e logiche di parte, di ceti e lobby di qualsivoglia tipo.

Più che riferimenti di valore, espressione di ciò che costituiva disvalore. Un modo di fare- quello- che diseducava la gioventù, che avrebbe dovuto assumerli ad esempio. Era in tal modo gravemente mortificato e offeso il tema del nobile mandato degli intellettuali, in tal modo si smarriva l’obbligo di essere da riferimento nella serietà degli studi e nell’impegno, base essenziale ed esempi virtuosi da cui far emergere e selezionare con forza, negli anni a venire, una diversa, più autorevole e credibile classe dirigente. Ciò doveva valere in specie nella realtà meridionale, dove andava riscoperta l’autentica e aggiornata espressione della migliore tradizione illuminista e “giacobina”, in grado di restituire, alla città oltraggiata, il ruolo centrale e di prestigio di frequente esercitato nei secoli passati.

Lascerà Napoli, e la sua Università, nel 1991. Una rottura traumatica e annunciata. Non l’aiutava, nel contesto che col tempo si era andato a strutturare nella città che aveva tanto amato, la personale intransigenza politica e morale, per nulla incline a rinunce e compromessi sui principi. La superiorità intellettuale, e la diversità di Giancarlo Mazzacurati nel confronto con tanti altri suoi colleghi che avevano deciso di venire a patti, per proprio interesse, coi poteri nuovi, rinunciando all’esercizio della propria autonomia e riducendo la soglia della propria personale libertà s’evidenziava anzitutto sul terreno etico-morale.

Restò sempre lontano da ogni misero e opportunistico gioco accademico, una dimensione a cui non poteva che rimanere completamente e tenacemente estraneo, ostile, indifferente. Un tratto distintivo questo che gli fece onore!

Ai suoi amici più stretti, ebbe modo di esplicitare, senza diplomatismi e con schiettezza, i motivi più profondi e argomentati della sua amarezza, in specie potendo più volte constatare, con lucidità, a quale grado di rinuncia e di degrado della propria funzione educativa e formativa si fosse ormai ridotta, per più aspetti, l’Università degli Studi di Napoli, un tempo autentico faro e simbolo pregevole, in svariate discipline, della storia della Cultura di tutta l’Italia Meridionale e del paese intero.

Lo sconforto non poteva di certo più essere appagato- neppure parzialmente- dalla sua acuta ironia, sempre praticata con particolare finezza e intelligenza.

Avvertiva ormai, con disincanto le gravi e profonde degenerazioni, comportamentali ed etiche, profondamente radicate nel mondo in cui aveva speso- con assoluta passione- l’arco più importante della sua esistenza.

Fu tale l’analisi, malinconica e realista, effettuata con lucidità impietosa e suffragata da puntuali esempi, che lo indusse alla scelta dolorosa, e interiormente lacerante, di lasciare la città partenopea per trasferirsi altrove.

Le espressioni degli amici che, pur nel dovuto riserbo, hanno fornito commosse e affettuose testimonianze dei suoi ultimi giorni, ce lo ripropongono, con visioni convergenti, così per come è sempre stato. Un uomo che- fino alla fine- ha continuato a guardare al mondo con curiosità estrema e quasi ingenua, con attenzione ed ironia, appassionato a discutere di libri e di scrittori, italiani o stranieri, più o meno noti, dei diversi tempi della letteratura, sempre proteso verso gli altri, verso i suoi colleghi ed i suoi amici, coi quali manteneva le più forti sintonie pronto come era a considerare- sempre e con attenzione- le loro idee e le loro ragioni.

Pur avendo scelto Pisa, rimase sempre affascinato dall’incalcolabile ricchezza umana e culturale della città da cui a un certo punto scelse di andare via, dal suo sorprendente dinamismo, dalla grande fantasia, vivacità e apertura intellettuale dei suoi studenti per davvero fuori dal comune.

E adesso si può senz’altro, con argomentata e lucida ragione, ribadire che, continuare a seguire il sentiero che ha tracciato con grande competenza e con passione è oggi, pur nei complessi tempi attuali che viviamo, il modo migliore di mantenere viva e di onorarne la memoria.

In conclusione, un importante insegnamento il suo che- non a caso e per più ragioni -nell’animo di chi lo ha conosciuto resta intatto.

 



[1] Gli atti raccolti sono poi confluiti in una bella pubblicazione, a cura dello stesso Istituto, intitolata: “Con Giancarlo Mazzacurati”, edita da “La Città del Sole” che, in appendice, raccoglie alcuni dei suoi scritti più acuti e illuminanti, una traccia imprescindibile per ridisegnarne al meglio, fedelmente e senza forzature, la figura e l’identità culturale, politica, etica e morale.