Tra razionalità e passione: la religione laica di Giancarlo Mazzacurati (2)

Piero Lucia

Negli scritti delle riviste di quegli anni, colpiva innanzitutto ciò che si percepiva quasi come una febbrile frenesia, la volontà tenace di riappropriarsi, e al più presto, di tutto il tempo che s’era ingiustamente perso.

Rompere gli steccati, riaprire in tutte le direzioni le frontiere del pensiero, questo l’imperativo!

L’approccio, pur partendo evidentemente- in modo prevalente- dagli autori italiani, puntava in sostanza e innanzitutto a sprovincializzare la cultura italiana, mettendola finalmente in virtuosa relazione con altri autori europei e mondiali già affermati o emergenti. La ricerca perciò spaziava a tutto tondo e in ogni direzione. Un panorama fittissimo, di plurime esperienze, di ogni angolo del mondo, dei segmenti più diversi del sapere, sia in campo umanistico che scientifico, da rimettere tra di loro in feconda, permanente relazione. L’Italia che con la cultura di nuovo si riapriva finalmente al mondo! Una stagione- quella- probabilmente irripetibile, nella cultura e nella letteratura, e nei campi delle più diverse discipline, come il cinema, destinate per un lungo periodo e dovunque a fare scuola. E in questo contesto le riviste, in specie ma non solo di sinistra, nelle intenzioni dei promotori, dovevano svolgere senz’altro un ruolo decisivo di orientamento e di collante, di crescita individuale e collettiva progressiva. Fu quella un’esperienza unica, e molto difficilmente replicabile.

Pesò senz’altro, e non poco, più avanti e in modo negativo, il retaggio- mai più compiutamente ricomposto- dell’aspra rottura consumata tra le forze della sinistra all’indomani dei tragici fatti d’Ungheria della fine 1956 e della grave lacerazione che ne conseguì. E tuttavia gli anni ’60 e i primi anni ’70 furono, per trascinamento di quell’onda, ancora ricchi di vicende sociali e di molteplici esperienze positive, con grandi conquiste economiche e sociali ed importanti riforme, nel mondo del lavoro e nella società, che resero il Paese più avanzato e più moderno.

Più avanti poi l’inversione netta di marcia ed il riflusso, con la sopraggiunta, progressiva stagnazione. Le grandi speranze, diffusamente alimentate, sembravano a quel punto ormai riposte e andate irreversibilmente in crisi.

Il professore fu sempre un critico militante, che non visse mai l’impegno culturale in modo scisso e separato dal tumultuoso svolgersi dei fatti e delle vicende umane, dal continuo e contrastato fluire degli acuti contrasti della contemporaneità.

Egli continuò, pur tra le difficoltà crescenti derivate dalla secca e repentina involuzione del contesto ambientale in cui si trovava ad operare, ad essere incrollabilmente fedele alla sua originaria concezione di studioso schivo, riservato, e tuttavia costantemente e fecondamente proteso alla stimolazione del confronto e della discussione, alla sollecitazione permanente del chiaro esplicitarsi della pluralità delle posizioni in campo, attento all’ascolto dell’altro, per nulla incline all’evanescente rapporto- di mera superficie- formale e solo nozionistico con l’interlocutore. E al contempo sempre incline a ricercare più punti d’incontro e di equilibrio tra la teoria e la pratica.

Il grande insegnamento dell’illuminismo lo induceva ad essere intransigentemente fedele al concetto della tolleranza e della libertà, all’obbligo dell’instancabile ricerca e dello studio. In ciò erano individuabili i tratti originali e distintivi della laicità del suo pensiero, della sua particolare “religione”, che consisteva nel mantenere in stretta e coerente relazione ciò che si diceva con come si operava.

Il valore del critico e dello studioso, l’intensità e la pregnanza filologica delle sue interpretazioni critiche analitiche, il valore della visione della produzione letteraria e dell’indagine interna ad ogni sfumatura dell’opera dei grandi scrittori, e di quelli minori, di cui si occupò continuamente e per decenni sotto l’aspetto letterario e storiografico, secondo cui nessun autore può essere adeguatamente e integralmente compreso nell’autenticità del suo spirito al di fuori di una corretta e puntuale ricostruzione del contesto d’insieme storico, sociale e culturale in cui era maturata la sua opera, è fattore essenziale e imprescindibile per intenderne l’essenzialità e l’interna problematicità del pensiero, mai per sempre e definitivamente appagato nei punti di approdo di volta in volta raggiunti.

Il suo lavoro di critico letterario si poneva continuamente il problema di “scavare sempre più in profondità”, nelle pieghe del testo, in maniera non “tecnicamente” esterna, ma intensamente coinvolgente, per cogliere- sempre di più e meglio- il nesso del rapporto tra l’autore, l’ambiente e l’oggetto della sua specifica creazione.

Assieme a ciò, la ricerca continua, a volte quasi maniacale, delle correlazioni più complesse e più minute, delle convergenze o delle difformità con le condizioni “esterne” al suo operare, la condivisione, ovvero la distanza, dai progetti e dalle aspirazioni collettive prevalenti nella società nel tempo storicamente dato.

Le sue modalità di lavoro erano pertanto sempre assai concrete. La struttura della ricerca innanzitutto protesa, con scrupolosità filologica, verso il contenuto autentico del testo, senza eccessi di soggettivismi o voli pindarici superflui e ridondanti. Dicendo ciò, non si vuole di certo sostenere che non avesse anche una personale e definita visione e prospettiva letteraria, sociologica o politica precisa.

La letteratura però non poteva concepirsi come un fenomeno del tutto a sé stante e separato, ma andava invece valutata nelle diverse sfaccettature e nel suo insieme, come paziente lavorio che entra comunque in relazione e riesce sempre in una qualche maniera a influenzare ed a correggere lo Zeitgeist, lo spirito del tempo.

La critica letteraria, davvero efficace, era perciò quella che chiariva al lettore, per mezzo dello stile utilizzato, lo sfondo storico più vasto dell’opera, i suoi interni fattori di fluidità e contraddittorietà, l’inscindibile nesso tra ironia e passione, la capacità di avvertire distanza o sintonia col tempo e con lo spazio circostante. E, al contempo, il sintomo pulsante di un dialogo originale, costante e ininterrotto, la lucida consapevolezza della parzialità dell’uomo e, di conseguenza, l’obbligo e la necessità di non ritrarsi nella solitudine e nell’individualità esasperata, ed anzi di operare insieme, in quanto esseri viventi accomunati da una comune sorte, uniti dal superiore imperativo categorico volto a tentare di mutare in meglio, con l’impegno collettivo, nell’interesse generale, il peso e la problematicità dell’esistenza che il caso aveva individualmente assegnato ad ogni umano.

Il valore perciò straordinario, e la necessità, della letteratura, anzi la sua indispensabilità, la lucida constatazione della individuale fragilità, il rifiuto di ogni rassicurante e definitiva, preconcetta, dogmatica certezza, illusoriamente appagante, trancia decisamente l’orizzonte libero e democratico dell’intenso e faticoso, lavorio critico del professore.

Giancarlo Mazzacurati è stato per più ragioni un’intellettuale di frontiera, che è riuscito, in quella fase, a mettere in ricca e feconda relazione la lezione imperitura del marxismo e del gramscianesimo, coniugandone l’intrinseca, straordinaria vitalità con continue innervazioni e arricchimenti. Fu anche un finissimo traduttore di opere letterarie dall’inglese e dal francese.

Da quelle inesauribili fonti concettuali, ripetutamente consultate, attingeva- con metodo e sistematicità- la peculiarità d’indagine, la strumentazione più efficace per la critica stilistica interna dei “suoi” autori, da quelli prediletti del ‘500 ai più moderni, a Svevo, a Pirandello, a Vittorini, fino a Cassola, Pavese, Pasolini.

Fu, per queste ragioni appena scarnamente richiamate, un’intellettuale

“minoritario” e “scomodo”, con una straordinaria e originale passione per l’impegno politico e sociale, con una determinata e incrollabile volontà di mischiarsi alla vita pratica, partecipando in modo attivo alle grandi battaglie civili per il rinnovamento della scuola e della cultura meridionale e nazionale. Non occultò mai la sua profonda contrarietà, e la sua secca opposizione, ad un’idea d’impegno in politica interpretato come puro mestiere.

Non casuale, perciò, la diversità e la secca presa di distanza personale da quegli intellettuali che, rinunciando di frequente all’esercizio della propria autonomia, avevano gareggiato a fare a tutti i costi i “politici”, magari tentando goffamente di confondersi con essi. Nella pratica politica in nessun modo andavano sacrificati, o resi marginali e residuali, i concetti di conoscenza e di autentica cultura.

Giancarlo Mazzacurati fu assai attivo nel movimento universitario di quei tempi, nelle lotte per il docente unico, l’unità di didattica e ricerca, per il tempo pieno nell’Università.

L’assoluta e instancabile dedizione al lavoro universitario, e l’idea dell’impegno per l’assoluta libertà della ricerca, non cambierà mai di segno durante i decenni successivi. In tal senso fu sempre refrattario ad ogni obbedienza acritica e a leggi, anche non scritte, di corporazioni accademiche e lobby di potere;

Negli anni ’70 aderì al Partito ed al Sindacato della Cgil e proprio allora, nelle fila del partito comunista napoletano e nazionale, confluiranno gruppi di intellettuali provenienti dalle esperienze più diverse e disparate, cattolici, liberali, radicali, democratici, attratti dal fascino avvolgente di una formazione politica, particolarmente originale, che sembrava riuscisse finalmente ad intercettare ed a rappresentare al meglio il grumo delle grandi speranze di rinnovamento e cambiamento, ben oltre la sua base sociale prevalente, quella operaia. Ciò doveva realizzarsi in un rapporto di collegamento, e di continuità ideale, con le intense battaglie sviluppatesi nel corso degli anni ’50 e ‘ 60, il periodo appena antecedente in cui sembrò potersi rapidamente realizzare il grande processo di riforma radicale, economica, etica e morale della società italiana, la “Grande Riforma” politica e sociale da troppo agognata e ancora vanamente attesa.

L’approccio e la peculiarità dell’impegno politico si precisava nel suo rifiuto di una qualsivoglia sciatta, volgare e deviata pratica di tipo corporativo, da ceto privilegiato e separato.

Mazzacurati manifestava anzi, in modo esplicito, l’ambizione di disegnare i contorni d’orizzonte di una nuova unità, teorica e pratica. Auspicava in tal senso la creazione di più luoghi politici, molteplici e capillarmente aggreganti, di coinvolgimento collettivo, ove incontrarsi e confrontarsi sui più svariati temi di politica e cultura, spazi ove iniziare a cementare consapevolmente un nuovo fronte, ridisegnando una nuova consapevole unità, d’intellettuali, lavoratori, movimento operaio.

Ed in quegli anni il PCI sembrò in effetti e per più versi raccogliere e incanalare questa esigenza e questa volontà. Era probabilmente nato allora addirittura, per Mazzacurati, in Italia, a Napoli e nel Mezzogiorno, “quello che ormai appare come il più grande schieramento di forza lavoro intellettuale dentro i partiti della classe operaia che si sia mai registrato in tutta la storia europea”.

Purtroppo le potenti spinte al cambiamento, e le diffuse suggestioni, di radicale e repentina mutazione della società meridionale e nazionale, ben presto si arenarono e le architravi illuminanti, teoriche e politiche, dell’insegnamento dei “Quaderni” gramsciani furono progressivamente riassorbite, e sempre di più rese innocue, dal riemergere e prevalere di strenue e robuste resistenze dei poteri e degli interessi forti dei ceti borghesi dominanti più tradizionali e più retrivi.

Anni 70, anni torbidi, quelli del terrorismo, che sparsero a piene mani un vento d’incertezza e di diffusa paura nel paese, con rischi drammatici per la democrazia repubblicana d’involuzione autoritaria. Poi gli anni ’80, con l’inversione di tendenza secca e radicale di quella che era stata la storia politica e repubblicana appena antecedente. E’ infatti proprio allora che si assiste all’avvento di “nuove ideologie” spesso spacciate per modernità, all’avvio ed al consolidamento di politiche d’ispirazione spiccatamente leaderistiche, all’esasperazione del concetto dilatato di “libero mercato”, ad un salto di qualità ulteriore nella funzione organizzata e pervasiva della criminalità, col suo intreccio perverso con i pubblici poteri e rilevanti pezzi dello Stato.

Sarebbe emersa allora una mistura rovinosa, che avrebbe prodotto la grave crisi, e poi il naufragio, dell’ambiziosa impalcatura abbozzata in precedenza.

L’idea inflessibile e nucleo centrale della visione di Mazzacurati era che una Nuova società sarebbe potuta sorgere solo con la crescita e la capillare diffusione di una vera democrazia partecipata, capace di pervenire di volta in volta a nuovi approdi, a nuove e radicali riforme di struttura, a un nuovo Welfare State più inclusivo.

In tal modo poteva essere eretto un argine robusto e invalicabile ad ogni involuzione reazionaria, a ogni opportunismo e trasformismo, contrario ed anzi opposto ad un vero ed efficace, robusto e progressivo riformismo.

Egli, pur non disdegnando ed anzi auspicando i necessari, strutturali cambiamenti, in specie per la realtà meridionale, riteneva che andasse comunque salvaguardato al meglio il grande patrimonio, ideale e culturale, dell’originale esperienza del comunismo italiano e nazionale. Né poteva a suo avviso periodicamente riproporsi sempre allo stesso modo, ingenerosamente assai liquidatorio e punitivo, il tratto di una continua metamorfosi di un’originale identità costruita con tanti sacrifici, sforzi e con fatica.   E fu perciò in tal modo, con questa convinzione, che entrò nel PDS, nel nuovo Partito sorto dalle ceneri del vecchio PCI.

Era senz’altro una persona di livello intellettuale superiore, eppure al contempo umile e immediato e al massimo grado disponibile, tollerante e portato- per natura- a confrontarsi alla pari con chiunque, sulla base di un’opzione originaria semplice, che aveva fatto propria e a cui fino alla fine rimarrà sempre fedele: il paziente e libero confronto è il seme essenziale della crescita individuale e collettiva, in tal senso è il sale della Democrazia.

In più di un’occasione, anche pubblicamente, non avrebbe di contro risparmiato un rilievo, duramente critico, agli intellettuali suoi colleghi: l’appannamento e lo snaturamento di quel ruolo, non più adeguatamente esercitato, di stimolo e di critica feconda, li aveva troppo spesso indotti ad atteggiamenti codisti, schiacciati e subalterni, e perciò non coerenti allo specifico esercizio della funzione naturale di indicare- in ben definite occasioni e circostanze- nuovi sbocchi, diverse opzioni e snodi alternativi, altre scelte e ben altre prospettive.

I tratti di questa grave involuzione, col grumo di grandi speranze, rapidamente consumate, furono da lui sintetizzate in un illuminante articolo, apparso su “La Voce della Campania” nel luglio 1977.

In quell’occasione il suo intervento s’incentrò- in particolare- proprio sulla specificità degli intellettuali napoletani, sul ruolo e la funzione da essi esercitati nel periodo intercorso tra gli anni ’50 e ’70.

Ne ricostruiva, in chiaroscuro e con puntigliosità analitica, l’accidentato percorso altalenante e ambivalente che, dagli iniziali “eroici furori”, intrisi della speranza in un repentino sommovimento radicale, li aveva alla fine indotti ad arenarsi, regredendo con stanchezza rassegnata nelle secche : “Nell’aiuola pur nobile del liberalismo illuminato, del moderato progressismo storicistico, fiorivano invece le grandi metafore della sconfitta e della rinunzia:  la Natura ancora una volta ribaltata contro la Storia, la Giungla che invade i Templi, la libertà come spazio interiore e tutti gli altri strumenti conoscitivi d’ogni trauma post-rivoluzionario; tutto questo non solo in assenza di rivoluzione, ma anche di ogni decente tentativo di riforma. Dalla Ragione tradita, dalla Prassi Civile offesa, si rigenerava l’orbita stretta dell’autosufficienza, il Valore/Coscienza opposto come privilegio astratto, gratuito, all’ingrossamento torbido e informe delle masse ( al loro ennesimo tradimento); e al suo immediato seguito, intrisa di qualche nostalgia per democrazie d’ “elite”… o per il centralismo liberale dell’ultima ‘Mitteleuropa’, giungeva la risposta rivendicativa e scontrosamente minoritaria di una scienza critica, politica, economica e sociale che si rassegnava ad inviare ormai manoscritti in bottiglia : non senza qualche tratto auto-apologetico”.[1]

 



[1] Giancarlo Mazzacurati, La Voce della Campania, luglio 1977