(ri)Leggere Marx

 Aurelio Di Matteo

In una bellissima e colta intervista la filosofa ungherese Agnes Heller raccontò un episodio autobiografico. Vero o solo esemplare che fosse, poco importa. L’universo teoretico che adombra può ben riassumere un intero libro.

Ebrea, educata e vissuta in una famiglia di non religiosi, ma di necessità alunna di un liceo ebraico. Con l’impertinenza di pensiero propria dell’adolescenza, provocatoriamente si rivolse al rabbino docente della scuola: “Io non credo in Dio”. Pensava ad una violenta e punitiva reazione. Con sua grande sorpresa il rabbino, in risposta, le raccontò un episodio successo in Ucraina in uno dei massicci progrom ad opera dell’Armata bianca durante la guerra civile russa. Il comandante responsabile di quel massacro volle sfidare il rabbino della città ordinandogli di riassumere l’essenza della sua religione reggendosi su una sola gamba. Se fosse riuscito a farlo, avrebbe graziato quelli che non erano stati ancora fucilati. Il rabbino la riassunse con una corta e rapidissima frase: “Ama il prossimo tuo come te stesso”. Per fare ciò non è necessario credere in Dio. Fu questa la risposta data dal rabbino alla adolescenziale provocazione della futura filosofa.

È per questo che occorre rileggere i Vangeli, non per diventare credenti. Non servirebbe.

Per acquisire i principi, le categorie etiche e sociali per vivere in modo adeguato, secondo “giustizia”, nella comunità sociale e possa realizzarsi la liberazione radicale dell’uomo. E questi non sarà mai libero, ma sfruttato, discriminato, emarginato fino a quando non si realizzerà una società “giusta”. Non certo quella del diritto positivo, che s’incarna nella violenza giuridica di ogni forma di Stato, ma quella che ha annullato nel suo seno le disuguaglianze sociali e culturali ad un tempo, che derivano tutte dalla mancata rimozione degli ostacoli economici e sociali, i quali di fatto e concretamente impediscono l’uguaglianza e l’esercizio della libertà. Facendo diventare recitazione formale l’elenco dei diritti statuiti dalle Costituzioni degli Stati cosiddetti democratici.

Da qui il mio “invito” alla politica, espresso in precedenti interventi, a rileggere o, forse, finalmente a leggere quel carneade di Karl Marx. Non per diventare marxisti, che sarebbe la peggiore iattura, ma per pensare e per agire da marxiani. Quel Marx, per così dire messianico, della liberazione dell’umanità, dell’emersione dei bisogni radicali e della negazione di quelli alienanti, mercificanti e neo schiavisti, che aggiungono sfruttamento a sfruttamento.   Per dirla con Petrucciani, è il Marx preveggente, i cui scritti riuscirono a cogliere le grandi contraddizioni dello sviluppo capitalistico. A distanza di un secolo e mezzo, ne siamo testimoni.  Come egli ben vide, la mondializzazione del mercato, la globalizzazione del capitale, la sua illimitata accumulazione e a un tempo instabile, la sostituzione del lavoro materiale con quello robotico e, quindi, la scomparsa di classi definite, hanno cambiato la natura stessa del lavoro che, oggi, con il neo-capitalismo non può essere identificato in relazione all’”operaio” o ad una classe qualificata come centrale nei processi di valorizzazione. La dimensione immateriale, intellettuale, cooperativa e la rete, come tessuto di ogni attività produttiva, sono diventati gli elementi centrali della valorizzazione produttiva. Il lavoro diventa sempre più immateriale e la produttività cognitiva, affettiva, cooperativa, insomma “produzione di soggettività”. I lavoratori non sono più proletari, ma “moltitudine” come soggettività.

Oggi gli economisti – dietro di loro i politici e i sindacalisti, compresi quelli della scomparsa sinistra – dicono che il Capitalismo è l’unico sistema socio-economico possibile. Come insegnò Marx, esso è, invece, un sistema “storicamente determinato”, un processo nato con “l’accumulazione originaria”, sul quale la borghesia ha costituito il suo domino.

Tutto questo mondo economico-sociale si ammanta della retorica della democrazia, a fronte della crescita continua delle disuguaglianze di potere, di reddito e di cultura; mentre cresce l’incompatibilità e si accentua il solco tra democrazia formale recitata dal diritto positivo e le condizioni di disuguaglianza, di emarginazione e di sfruttamento.

Con la globalizzazione del capitalismo si dà per scontato che la categoria del “privato” sia l’unico principio valido di organizzazione economica e l’unica musa ispiratrice dell’organizzazione sociale.

Ad un tempo il pensiero marxiano è stato confuso con lo statalismo sovietico e con il revisionismo socialista, prima nella dimensione della categoria del “pubblico” e poi nella degenerazione neo-liberista della socialdemocrazia. I concetti del “pubblico” e dello “statale” non sono mai stati di Marx. L’eliminazione dell’economia capitalistica non passa né per quella del “socialismo di Stato” né per quella del “socialismo liberale”.

Nel pensiero marxiano è il “comune” il principio che anima sia l’attività collettiva degli individui nella costruzione della vita e della ricchezza sia l’autogoverno di questa attività. Il “comune” deve essere inteso come il “prodotto della prassi politica”; come il risultato di un “processo costituente”. Il “comune” non è un “ideale” – certamente potrà anche esserlo. È esso stesso il modo di essere dell’azione degli individui, la sua forma e la sua definizione. Per usare una terminologia alla Foucault, è la fondazione ontologica della lotta al bio-potere del capitalismo finanziario. In quanto tale è la forma della nuova lotta di classe.

Discende da tutto ciò il tema centrale, che era anche di Marx, del plus-valore. In altri termini, sapere “chi produce” e “chi riceve” il plus-valore. L’unico modo per determinare rapporti produttivi alternativi a quelli capitalistici e, quindi, strutture socio-economiche sul principio del “comune”. Non più oltre Marx, ma con Marx originario.