William Congdon (1912-1998), un pittore per Positano

“Dipingo sempre quello che sono, non quel che vedo”, così ha risposto nella sua ultima intervista rilasciata a Red Ronnie nel 1998 il pittore americano William Congdon di cui quest’anno si celebra il ventennale della scomparsa. Celebre negli anni ’50, quando dipingeva soprattutto le vedute di Venezia ed esponeva nella celebre Betty Parsons Gallery di New York e quando Peggy Guggenheim diceva che le sue vedute di Venezia erano le più belle dopo quelle di Turner, scopre la sua vocazione artistica in modo drammatico: davanti alle scene di orrore del Campo di Concentramento di Bergen-Belsen dove arriva nel 1945 con l’Armata Anglo-Americana. Davanti a quei volti stremati dalla fame e dalle malattie sente il bisogno di catturare quelle immagini e di comunicarle attraverso il disegno. Da subito quindi, per William Congdon l’arte si rivela come un qualcosa che ha a che fare con il dramma del vivere, ma anche come una possibilità per conoscere di più la realtà, per indagarla nei suoi aspetti più contraddittori e per cercare di capire infine, il mistero più grande: se stessi, da dove veniamo e perché esistiamo. Una pittura quindi, di alto spessore filosofico ed esistenziale.

Così attraversando quasi tutto il XX secolo, la pittura di Congdon si snoda in una straordinaria avventura umana e artistica, dipingendo e ancor prima disegnando, l’artista “è costretto” a guardare le cose in modo diverso e a bucare l’apparenza per entrare in rapporto con un “oltre”. Le sue immagini delle città, del deserto, del mare, poi della natura della Bassa milanese dove vivrà gli ultimi 20 anni, non sono astratte e nemmeno figurative. Anche se agli inizi della sua carriera a New York negli anni ’40, partecipa all’avventura della Action Painting insieme ai suoi amici Pollock, Rothko ed altri, la sua pittura nel tempo assume una cifra originale che è difficile paragonare con altri artisti perché affonda in una tensione esistenziale unica e irripetibile proprio perché sua, intrecciata e plasmata dagli avvenimenti di tutta la vita. Calza a meraviglia alla pittura del pittore americano una felice osservazione di Eduardo De Filippo: “chi cerca la vita trova la forma, chi cerca la forma trova la morte” perché la sua pittura nasce sempre da una urgenza di vita, di significato, non è mai condizionata da una preoccupazione stilistica, come anche si evince dai suoi numerosi scritti, e proprio per questo arriva ad una “forma” originale e suggestiva.

La pittura di William Congdon si sviluppa in un itinerario artistico estremamente complesso e articolato, caratterizzato fin dagli inizi dalla convinzione che l’immagine pittorica nasca dal profondo del proprio essere e che il trasferimento sul supporto pittorico sia paragonabile, in tutto e per tutto, all’atto del partorire. La progressiva presa di coscienza del ruolo che l’atto creativo riveste nella sua vita, e l’evoluzione di tale coscienza nella successione degli avvenimenti che segnano la sua storia personale rappresentano, a mio avviso, una valida chiave di lettura per interpretare in modo adeguato le opere dell’artista.

Il volume “WILLIAM CONGDON, UN OCCHIO E UN CUORE NUOVO” che ho pubblicato nel 2017 con la SEF- Società Editrice Fiorentina intende proprio dare una chiave di lettura in questa direzione, quella cioè di sottolineare l’unità tra la vita e le opere del pittore di Providence.

Da qui la scelta di presentare i vari dipinti in successione cronologica, e di inserire in apertura di ciascun capitolo una breve nota biografica per meglio contestualizzarli. Ogni capitolo corrisponde a una precisa fase pittorica: la prima, dagli esordi alla fine degli anni Cinquanta, è segnata dalla presa di coscienza sempre più consapevole del dono creativo e dalla successiva crisi dell’ispirazione artistica. La seconda, caratterizzata da un nuovo linguaggio figurativo, prende le mosse dalla conversione di Congdon al cattolicesimo, avvenuta nel 1959 ad Assisi, e si protrae fino al 1979. La terza, che segna un nuovo rapporto con la natura e si esprime in una maturità artistica assolutamente originale, inizia dopo il trasferimento dell’artista a Gudo Gambaredo, nella Bassa milanese, e termina nel 1998, anno della sua morte.

L’evento di presentazione del libro suddetto, organizzato dal Comune di Positano per il 15 settembre 2018 presso la Sala Consiliare, vuole non solo celebrare il ventennale della scomparsa del grande pittore ma anche sottolineare l’amore che l’artista ha avuto per la Campania e in modo particolare per Positano avendovi soggiornato a più riprese negli anni ’50 e avendo dipinto una serie intera di opere dedicate alle sue straordinarie vedute.

Così abbiamo Positano1 esposto alla Art Gallery dell’Università di Yale a New Haven e Positano 5 esposto alla Addison Gallery of American Art di Andover. Altre vedute di Positano (Positano n. 2, n. 3 e n. 4) furono esposte dal pittore stesso nel 1958 alla Galleria Obelisco di Roma.

Il Comune di Positano a sua volta possiede una delle vedute più straordinarie di Positano dipinta dall’artista nel 1956, si tratta di Positano 6Cattedrale, opera probabilmente pervenuta al Comune grazie al lascito della direttrice dell’Art Workshop Edna Lewis, come ci riferisce Matilde Romito che ai pittori che hanno lavorato a Positano nel ‘900 ha dedicato una ricerca storica dettagliata e rigorosa poi confluita nel bel volume edito da Pandemos “La pittura di Positano nel ‘900”.

La conferenza di presentazione del mio libro “William Congdon, un occhio e un cuore nuovo” in cui interverrà Matilde Romito e il sottoscritto, vuole essere una occasione per sottolineare -in modo nuovo- quella straordinaria vocazione che ha Positano di essere luogo di bellezza, una bellezza così suggestiva che ha attirato sempre artisti da ogni parte del mondo. Ma vuole anche essere una occasione per riscoprire William Congdon, una delle figure più straordinarie del XX secolo, pittore poeta, scrittore e critico d’arte, straordinario dal punto di vista artistico ma non meno dal punto di vista umano che della sua opera pittorica ha detto: “tutta la mia opera è la testimonianza della positività della realta’”.

Silvio Prota