Papà e mamma missionari

Padre Oliviero Ferro

Erano ormai quasi 6 anni e mezzo che ero in missione in Congo. Mi ero trasferito nella missione di Luvungi, in quella che una volta era chiamata “la pianura degli elefanti” (ora non c’erano più, erano finiti nelle riserve), quando un giorno mi arriva la notizia che papà e mamma verranno per un mese “a fare i missionari con noi”. Bellissima notizia che ho subito comunicato ai cristiani. Anche loro molto contenti. Il giorno dell’arrivo scendo ad Uvira, centro della Diocesi e con l’economo, attraversiamo il confine con il Burundi per andare all’aeroporto di Bujumbura per accoglierli. Scendono dall’aereo tutti contenti di essere arrivati e si riparte per il Congo. Al confine, soliti problemi con i doganieri. Ci dicono che non si può essere più di tre sul pulmino, mentre eravamo in quattro. Si paga la multa (senza ricevuta). Nel frattempo passano i taxi, strapieni, ma…niente multa. Beh, noi eravamo stranieri. Ci si ferma un pochino all’episcopio per bere qualcosa e poi si riprende la strada asfaltata per salire verso la missione (una ottantina di chilometri, senza ponti). Si arriva ancora con il sole. Veniamo accolti dagli altri missionari e da alcune persone. Papà e mamma danno l’impressione di trovarsi subito bene e cominciano a chiacchierare, fare domande, a vedere dove erano capitati. Vengono anche le suore saveriane e subito entrano in amicizia. E così passano i giorni. Papà va un po’ nell’orto per piantare i semi, portati da casa. Mamma invece va nel laboratorio dove le donne imparano a cucire. In più, noi le diamo da fare per riparare i nostri vestiti. Cominciano anche a mangiare frutta e cibo locale. E vedono come funziona la missione. Mamma rimane meravigliata nel vedere due operai che tagliavano un tronchetto di legno con molta calma. Chiede loro (non so in che modo) come mai vanno piano. La guardano sorridendo come per dirle “ma che fretta c’è? E domani che facciamo?”. Una mattina vado con loro e il cuoco al mercato per comperare la carne (un pezzo di mucca e altro cibo). Rimangono meravigliati da tutta la confusione di chi vende e di chi compera e anche di chi fa tanti lavoretti. Soprattutto si chiedono come la gente riesca a trasportare sulle biciclette, in salita, 10 caschi di banane (sui 30-40 chilogrammi). Vedono la fatica delle persone e anche lo sfruttamento di chi dovrebbe lavorare per loro e cominciano a farsi tante domande. Poi, a papà è capitato di incontrare la signora MALARIA e per qualche giorno è rimasto a letto (un incontro non gradito!). La domenica anche loro partecipano alla messa nella chiesa strapiena. Li presento alla gente e tutti applaudono contenti che “baba na mama ya padiri mkubwa walifika kuwatembelea” (papà e mamma del parroco sono venuti a visitarli). E alla fine della messa, tutti vanno a salutarli. Papà aveva cominciato a scrivere un diario di tutto quello che vedeva, delle impressioni che poi avrebbe fatto conoscere alle persone in Italia. Erano molto meravigliati della povertà, ma anche della loro fierezza nell’affrontare i problemi. E poi (io avevo studiato il kiswahili, la lingua locale), ma loro riuscivano a comunicare meglio di me (con la lingua dell’amore). E’ stato un gran regalo la loro presenza. E quando si avvicinava il giorno del rientro, sentivo che avrebbero voluto rimanere ancora, perché si sentivano a casa loro. Era questo il segreto che avevano imparato. Lo avevano sperimentato in ogni luogo dove li avevo accompagnati. La gente era contenta di vederli e aveva capito che era facile volersi bene. Bastava poco. Pochi gesti, ma un cuore grande. Adesso loro mi guardano da lassù, ma non potrò mai dimenticarli. Sono loro che sono stati i primi missionari. Io ho cercato solo di seguire il loro esempio.