Arabia Saudita: nuovo epicentro del caos Mediorientale?

Pochi giorni fa, il principe ereditario dell’Arabia Saudita Mohammad bin Salman ha sorpreso il mondo intero ordinando decine di arresti di principi, di ex ministri, del capo della Guardia nazionale e dei vertici dei media del Regno. Poco prima, il primo ministro libanese Saad Hariri – storico alleato dei Saud – ha annunciato le proprie dimissioni attraverso un messaggio televisivo in diretta da Riyadh, rivelando di temere che Hezbollah e Iran vogliano attentare alla sua incolumità. Nella stessa giornata, un missile balistico lanciato dalle aree settentrionali dello Yemen controllate dai ribelli Houthi, è stato intercettato e distrutto nei pressi dell’aeroporto della capitale saudita. Come interpretare questa sequenza di avvenimenti e quali conseguenze avranno per il Medio oriente? La “Nuova” Arabia Saudita di Mohammad Bin Salman. Per quanto all’apparenza imprevedibili, i recenti sviluppi in Arabia Sauditaappartengono in realtà a uno schema a cui il Regno è sembrato aderire negli ultimi due anni, cioè dall’inizio dell’ascesa di Mohammad bin Salman al potere. Come evidenziato nel commentary di Eleonora Ardemagni, tanto sul piano politico interno quanto su quello esterno, il giovane erede al trono ha ripetutamente intrapreso azioni improvvise ma dalle conseguenze ampie. Sul piano politico interno, il principe ereditario si è mosso allo scopo di consolidare il proprio potere in previsione del passaggio ufficiale di poteri che avverrà alla morte o alle dimissioni del padre, l’attuale re Salman. Dopo gli arresti degli ultimi giorni, che fanno eco a quelli avvenuti negli scorsi mesi, Mohammad bin Salman è ora a capo dei tre rami delle forze armate saudite e di tutti media del Regno. A ciò si aggiunge la guida di Aramco, la maggiore compagnia petrolifera mondiale, e del comitato economico che gestirà la più ampia opera di privatizzazione che il Regno abbia mai conosciuto. In parallelo, Mohammad bin Salman sembra essere impegnato in uno sforzo di limitazione del potere religioso su cui si è tradizionalmente basato il patto di governo saudita. La concessione del permesso di guida alle donne, la limitazione del ruolo della polizia religiosa, così come le recenti dichiarazioni circa la necessità di implementare un Islam più moderato, sembrano andare precisamente in questa direzione. L’azione di Mohammad bin Salman è però estremamente rischiosa: da un lato, lungi dall’essere un riformatore illuminato, il fine ultimo di queste riforme sociali è rappresentato ancora una volta dalla volontà di limitare il potere religioso allo scopo di concentrare sulla propria figura le leve del potere; dall’altro, la velocità con la quale queste riforme stanno avvenendo rischia di trasformarsi in un pericoloso boomerang, causando la rottura del patto sociale tradizionale e esponendo il Regno al rischio di destabilizzazione interna.Verso una Nuova Crisi Regionale?

 Anche la politica estera del Regno saudita è stata chiaramente influenzata negli ultimi due anni dall’azione di Mohammad bin Salman, che dal 2015 ricopre il ruolo di ministro della Difesa. E anche in questo caso l’azione di MbS è stata caratterizzata da ripetuti azzardi dalle conseguenze su ampia scala. In principio è stato lo Yemen, tradizionale “cortile di casa” saudita in cui l’onda lunga delle primavere arabe del 2011 si è innestata su un annoso conflitto interno mai realmente risolto. La decisione del marzo 2015 di intervenire militarmente nel paese non sembra però aver portato a una risoluzione delle controversie: al contrario, lo Yemen è oggi il centro di una delle maggiori crisi umanitarie mondiali e non si intravedono soluzioni all’orizzonte. È del giugno di quest’anno invece la decisione di frantumare l’unitarietà della regione del Golfo – nei fatti più una chimera che una realtà – mettendo il Qatar di fronte a un ultimatum che gli impone di scegliere tra i legami con Iran, Turchia e Fratellanza musulmana (tre nemici di Riyadh) e quelli con il Regno. A partire da questa estate si è assistito poi a un inedito coinvolgimento saudita nella politica irachena: la ricerca del dialogo tanto con l’attuale primo ministro Abadi quanto con il leader radicale sciita al-Sadr è in questo caso da ricondurre al tentativo da parte saudita di compattare la frantumata comunità sciita irachena enfatizzando l’elemento dell’arabicità allo scopo di contrastare la supremazia de facto dell’Iran. Da ultimo, il Libano. La decisione saudita di far rassegnare le dimissioni al primo ministro Saad Hariri – storico cliente di Riyadh – apre l’ennesima crisi politica del paese, i cui esiti sono al momento ancora incerti. Come evidenzi nel commentary di Giuseppe Dentice il risultato immediato del nuovo corso saudita in politica estera sembra essere la ulteriore destabilizzazione di una regione già estremamente polarizzata e frammentata.Libano, di nuovo al centro del grande gioco?Le dimissioni – lo scorso 4 novembre – del primo ministro libanese Saad Hariri aprono un nuovo scenario di incertezza per il piccolo paese mediorientale. Come sottolineato nel commentary di Annalisa Perteghella, il fatto che la comunicazione di Hariri sia giunta direttamente da Riyadh conferisce una dimensione regionale alla crisi. Hariri, che dal dicembre 2016 presiedeva un governo di unità nazionale, aveva incontrato nei giorni precedenti alle sue dimissioni l’iraniano Ali Akbar Velayati, consigliere per la politica estera della Guida suprema Ali Khamenei. Dopo l’incontro, i due avevano rilasciato una dichiarazione in cui si enfatizzava la necessità di unità per fare fronte alla comune minaccia terroristica. Con ogni probabilità questa è stata solo la goccia che ha fatto traboccare il vaso. Da quando nell’ottobre dello scorso anno le parti politiche avevano raggiunto un accordo che – con l’elezione alla presidenza del cristiano Michel Aoun, vicino a Hezbollah – aveva messo fine a uno stallo politico durato più di due anni, gli equilibri del potere in Libano si erano spostati a favore dell’asse Hezbollah/Iran. L’approvazione, nel giugno di quest’anno, di una nuova legge elettorale proporzionale con la quale i libanesi dovrebbero recarsi alle urne nel maggio 2018, era stata però salutata come positiva per la stabilità del paese, nonostante il fatto che essa rischiasse di avvantaggiare Hezbollah e i suoi alleati. Ora, con le dimissioni anticipate di Hariri, si apre lo scenario di un nuovo posticipo delle elezioni e di una ulteriore revisione della legge elettorale. Nell’immediato, la mossa saudita danneggia Hezbollah, privandolo di un governo che dia legittimità al proprio operato. Sul medio periodo, però, l’incertezza prevale: il presidente Aoun, che secondo la Costituzione dovrebbe convocare nuove elezioni, ha fatto sapere  di non avere intenzione di accettare le dimissioni di Hariri fino a che questi non ritornerà in Libano. Hezbollah, che per il momento – come dimostrato dal discorso della scorsa domenica del leader Hassan Nasrallah – sta giocando la carta della moderazione, potrebbe fare pressione su Aoun perché nomini un nuovo primo ministro; difficile però individuare un sunnita (come prescritto dalla Costituzione) che in questo momento accetti di prendere parte a un governo con Hezbollah.

L’alternativa è il vuoto istituzionale, con tutte le conseguenze che questo comporta in termini di paralisi del processo legislativo e di gestione delle sfide quotidiane – non ultima quella di ospitare al momento più di un milione di profughi del conflitto siriano.In un tweet, il presidente Usa Donald Trump ha fatto sapere di “avere piena fiducia nell’operato di Mohammad bin Salman”, mettendo l’accento sulla bontà dell’operazione anti–corruzione lanciata dal giovane principe ereditario. Nei giorni scorsi, Trump aveva invece invitato – sempre tramite Twitter – l’Arabia Saudita a effettuare l’Ipo di Saudi Aramco sulla borsa di New York. Difficile pensare che azioni così ardite come quelle portate avanti negli scorsi giorni da parte di Mohammad bin Salman non godano del consenso degli Stati Uniti,partner fondamentale di Riyadh dal lontano 1945. Il riavvicinamento degli Usa all’Arabia Saudita – dopo anni di relazioni complicate con Obama – era stato del resto sancito dal summit dello scorso maggio a Riyadh, durante il quale Trump e re Salman avevano lanciato la nuova alleanza anti-terrorismo in funzione anti–iraniana. Che cosa è cambiato nel passaggio da Obama a Trump? Se per entrambi i presidenti è valido l’obiettivo di lungo termine del ritiro strategico dal Medio Oriente, a cambiare è la visione di come la regione debba essere gestita. Obama, aprendo all’Iran, intendeva porre le basi per la creazione di un sistema di gestione regionale condivisotra i maggiori attori dell’area. Una decisione, questa, che ha profondamente scontentato e preoccupato gli alleati storici, Arabia Saudita e Israele. Con Trump, gli Usa sembrano essere tornati alla tradizionale politica di ostilità nei confronti dell’Iran. Non potendo però dare seguito alle promesse di far saltare l’accordo sul nucleare – a causa delle pressioni europee, russe e cinesi, ma anche e soprattutto del fatto che l’Iran sta adempiendo ai propri obblighi – Trump cerca il modo di ostacolare Teheran e ridurne l’influenza regionale direttamente sul campo, benedicendo l’alleanza tattica tra Riyadh e Tel Aviv e fornendole piena legittimazione politica.Arabia Saudita – Iran , la rivalità che divide il Medio Oriente

Carta bianca di Trump?

Spesso dipinta come una rivalità millenaria che affonda le sue radici nello scontro tra sciiti e sunniti per la supremazia del mondo islamico, la rivalità tra Arabia Saudita e Iran ha invece dimensione prettamente geopolitica. L’origine dello scontro si può far risalire al 1979, anno della Rivoluzione che in Iran rovescia il regime filo–occidentale di Muhammad Reza Pahlavi e instaura una Repubblica islamica guidata da alcuni membri della classe religiosa sciita. I tentativi di esportazione della rivoluzione del decennio 1979–1989 vedranno Teheran creare o finanziare movimenti o milizie di estrazione sciita all’estero, in risposta ai quali Riyadh metterà in atto una politica di contenimento che si concretizza nell’appoggio all’Iraq di Saddam Hussein (impegnato tra il 1980 e il 1988 in una lunga guerra con l’Iran) e nella creazione del Consiglio di cooperazione del Golfo nel 1981. La competizione tra Iran e Arabia Saudita prende la forma di una competizione per la guida del mondo islamico, con l’Iran che cerca di proporre il proprio modello rivoluzionario come vincente, e l’Arabia Saudita che rivendica invece il proprio storico ruolo di guida del mondo islamico, la cui legittimità deriverebbe dall’essere il custode dei principali luoghi sacri dell’Islam, Mecca e Medina. Dato il forte peso geopolitico dei due paesi, entrambi hanno rappresentato negli anni e rappresentano tutt’oggi un polo catalizzatore di alleanze regionali attraverso le quali alimentano una guerra per procura che attraversa fasi alterne di scontro acceso e relativa distensione. L’invasione statunitense dell’Iraq nel 2003, che ha causato la caduta del regime di Saddam Hussein e il collasso dello stato, ha rimesso in discussione il precario equilibrio su cui si reggeva il fragile gioco delle alleanze. Dal 2003 l’Iran ha di fatto riempito il vuoto dello stato, e ha costruito un ruolo da kingmaker nella politica interna irachena. Negli stessi anni, lo scontro si sposta in Libano, dove nel 2005 l’assassinio – di cui è accusato Hezbollah – del primo ministro filo-saudita Rafiq Hariri, porta al ritiro delle truppe siriane dal paese e alla fine della pax siriana. I giochi si riaprono con le primavere arabe del 2011, con un’Arabia Saudita che in maniera sempre più assertiva cerca di colmare i vuoti politici lasciati dalle rivoluzioni nei paesi della regione, allo scopo di impedire la penetrazione negli stessi di Iran e islamisti vicini alla Fratellanza musulmana. Yemen, Egitto, Bahrain, sono solo alcuni dei paesi nei quali Riyadh si è ritagliata un ruolo di primo piano. In Siria, il tentativo di infliggere un duro colpo all’Iran causando la caduta di Assad, si è esplicitato nell’appoggio a formazioni ribelli islamiste. Di fatto persa la battaglia siriana contro Teheran, Riyadh si prepara oggiaportare lo scontro per procura su un altro livello e in altri paesi.

Ellera Ferrante di Ruffana