L'angolo della lettura: Morte di un uomo felice – Giorgio Fontana

Angelo Cennamo
Ho imparato a conoscere e ad apprezzare Giorgio Fontana, prima ancora di leggere i suoi libri, ‎attraverso le parole di affetto e di stima che ha per lui Marco Missiroli, quando gli capita di recensire i suoi romanzi o quando, per esempio, in qualche intervista o dibattito pubblico gli viene chiesto quali sono gli scrittori italiani che preferisce. “Fontana e Ammaniti”, risponde. Come Missiroli, Giorgio Fontana appartiene a quella giovane e talentuosa generazione di romanzieri, della quale fanno parte tra gli altri: Culicchia, Vasta, Bajani, Cognetti, Ciabatti, Schiavone, Meacci, Vinci, Robecchi, che sembra avere definitivamente ammansito le voci più critiche e pessimistiche sulle sorti della letteratura moderna di questo paese, dopo gli ultimi fuochi di Calvino, Pasolini e Sciascia. Nel 2014, a soli trentatré anni, Fontana pubblica il suo quinto romanzo Morte di un uomo felice e vince il premio Campiello. Il romanzo racconta la storia di un giovane magistrato, il trentasettenne Giacomo Colnaghi, che indaga sull’assassinio di un esponente in vista dell’ala più a destra della Democrazia cristiana, “un tipo volgare, odioso e colpevole”. Siamo a Milano, nell’estate del 1981. La stagione degli anni di piombo è entrata nella sua fase conclusiva, la più cruenta. Colnaghi è un uomo mite, molto cattolico “dovevi fare il prete, non il magistrato” gli ripete il collega Roberto Doni, “era talmente semplice, e come sempre aveva a che fare con il dolore: non con l’equità, o con qualche utopia, né con i piatti di un’ipotetica bilancia da pareggiare: alla fine si riduceva tutto solo e soltanto al dolore”, sposato con un’insegnante di inglese, Mirella, donna che ama ma con la quale non ha rapporti intimi da sette mesi “ il loro matrimonio ruotava attorno ad un nucleo di silenzio cristallino e rispettoso, che per Colnaghi era lo specchio di ciò che doveva essere un legame”. Giacomo Colnaghi fuma la pipa e se ne va in giro per Milano in bici o in tram, senza scorta. Gli piace trattenersi la sera in qualche bar di periferia per bere un bicchiere di vino e ascoltare storie di ferrovieri e di operai, o fare un salto nella libreria del caro amico Mario. La storia di Colnaghi si intreccia a quella di suo padre Ernesto, un operaio partigiano ucciso barbaramente dai fascisti quando Giacomo aveva solo pochi mesi. Fontana la scrive in corsivo, alternando le due vicende tra un capitolo e l’altro del libro. I due Colnaghi si somigliano molto, le loro brevi esistenze sembrano legarsi e ritrovarsi, oltre che nello stesso tragico destino, nei medesimi ideali di giustizia e di solidarietà che l’umile operaio insegue attraverso la Resistenza, e il sostituto procuratore lottando contro l’eversione e la ferocia delle Brigate rosse. Nelle note finali, Fontana scrive che per tratteggiare il personaggio di Giacomo Colnaghi si è ispirato alle figure di altri due magistrati assassinati: Emilio Alessandrini e Guido Galli. Leggendo il romanzo, io ho invece ritrovato nell’esperienza umana e professionale del protagonista le storie di Luigi Calabresi e di Giorgio Ambrosoli, eroi diversi ed uguali di una borghesia piccola, invisibile ed operosa alla quale questo libro vuole essere un generoso e commovente tributo. Per stoicismo, bontà d’animo e integrità morale, i due Colnaghi somigliano molto anche ai personaggi dei romanzi di Malamud, uomini spesso travagliati, perseguitati dalla malasorte, che combattono il male e le ingiustizie arroccandosi nella propria fede e nella rettitudine. Morte di un uomo felice è una profonda riflessione sulla giustizia e sui suoi limiti. Un libro emozionante, scritto con uno stile sobrio, garbato e scorrevole che ci riporta ai classici della grande letteratura italiana del Novecento.