Giovani a caccia di lavoro

Giuseppe Lembo

La Campania delle dismissioni facili è ormai parte integrante e condivisa di sé; è una vitale parte di sé. Ne rappresenta l’anima viva falsamente viva che, oltre ad essere falsamente viva, è anche diffusamente ammalata di sé, prossima a morire. Avvicinandosi al dismesso campano, primo in Italia, vediamo da vicino la grande dismissione del territorio campano, con la cancellazione dei servizi territoriali perché un inutile e dannoso peso campano ed italiano più in generale. Con tale logica si è pensato di cancellare, tra l’altro, il lavoro, soprattutto il lavoro giovanile. A che serve se possono andare in giro per il mondo e frutto del loro impegno delle braccia e dei cervelli, assaporare la dolcezza di “lo pane altrui”? Tanto, facendo così risparmiare il costo di bocche campane da sfamare sul suolo campano e ricevendo magari qualche soldo per impinguare le casse vuote di un’Italia che soldi proprio non ne ha per soddisfare i tanti optional italiani e campani in particolare che, senza farsene una ragione, vanno saputi considerare inutili e quindi da dismettere per il bene superiore dell’economia italiana, un’economia da profondo rosso italiano e da profondo rosso emergenziale per la Campania ed il Sud più in generale. A che serve quindi far lavorare i giovani in casa nostra, quando, senza dare fastidio a nessuno possono andare a lavorare altrove, non stressando, così facendo nessuno con lavori che è meglio dismettere, perché usuranti? Ma è veramente triste sentire ancora parlare di lavoro, indicandolo, come primaria necessità di vita. Chi dice questo non vuole bene all’altro, in quanto si compiace di vedere sudato e dalla schiena rotta e/o con il cervello confuso per gli sforzi sovrumani compiuti per inventarsi un lavoro socialmente utile al solo fine di campare e così quindi affaticarsi, stancarsi e stare così male, rischiando di ammalarsi e, per gli sforzi compiuti, lavorando, lavorando, per la sola pagnotta, di invecchiare precocemente. Ma, è umano tutto questo? A che serve fare il negriero pensando che il lavoro è un diritto costituzionalmente garantito e che è un dovere sociale, di fare lavorare gli altri, senza poi mettere in conto che il lavoro stanca e che è un danno alla salute per vivere veramente bene ed a lungo la propria vita. Il lavoro che non c’è, produce disoccupazione diffusa e con questa, un grave disagio giovanile delle tante braccia e dei cervelli che se ne vanno, sottraendo risorse utili se non del tutto necessarie per un nuovo futuro campano. Ma le tante variabili del malessere campano che ci ritroviamo nel negativo della qualità della vita sono ben oltre il lavoro ed esprimono significativamente le gravi sofferenze umane di chi vive in una regione disumanamente abbandonata a se stesa e dal futuro sempre più negato. In Campania le sofferenze umane e sociali maggiori riguardano soprattutto Napoli ed il suo hinterland dove vive il 50% della popolazione campana, con oltre 3 milioni di abitanti. Napoli e la sua vasta area metropolitana diffusa, oltre a non garantire a chi la abita, una vita di qualità, spesso non garantisce neppure una condizione di sofferta sopravvivenza; sono tanti i napoletani vicini alla soglia della povertà che in uno con l’esercito di chi viene da immigrato in Campania ed a Napoli in particolare, sperando in una vita migliore, purtroppo, per le gravi e dannose sofferenze quotidiane da vita di strada e dal solo cibo umanamente ricevuto dal solidale territoriale, attivamente presente e saggiamente vicino alla gente, è costretta a ricredersi ed a soffrire in silenzio per le sue condizioni di un mondo umanamente solo. di disperati della Terra, sempre più abbandonati a se stessi. Ma non finisce qui! Le gravi sofferenze campane e napoletane in particolare, continuano all’infinito e danno come amaro e triste risultato nella qualità della vita italiana, quei posti da ultimi della graduatoria del come si vive nel nostro Paese; tanto, con un aggravamento diffuso per il 2016 (Napoli, in coda alla graduatoria che vede Benevento, come prima delle province campane, al 72mo posto). È questa una condizione che non può assolutamente passare inosservata. La mala qualità della vita, così ampiamente diffusa in tutta la Campania ed a Napoli in particolare, sta ad indicare che sono tante le cose che non vanno sul territorio campano; si tratta di cose umanamente importanti che ci spingono ad una disumana condizione da italiani ultimi; da italiani dal futuro negato. Dal futuro cancellato e/o comunque, sempre più umanamente degradato. Perché, così tanto malessere in Campania? Prima di tutto, per un fare sociale fortemente compromesso da diffuse condizioni di criminalità e di illegalità; a queste vanno ad aggiungersi un diffuso abbassamento umano, professionale e culturale della classe dirigente, purtroppo, sempre più mediocre, con una conseguente e diffusa mediocrizzazione della società di riferimento, dove regna sovrana la corruzione, l’illecito ed una diffusa vita di scambio, basata sul principio sovrano, assolutamente intoccabile del “io do una cosa a te e tu dai una cosa a me”. Questo principio rappresenta, un continuum campano fatto di scambio diffuso con le conseguenti sofferti condizioni di una sudditanza familistica dei campani che, così facendo non si sono mai liberati da forme striscianti di schiavitù, ritrovandosi alla mercé di questo e/o quel “dominus” che tutto può ed a cui tutto si deve; a cui, da padre-padrone, tutto, ma proprio tutto, è dovuto. Oltre alle richiamate sofferenze campane antropiche e territoriali ce ne sono delle altre altrettanto importanti, assolutamente da non trascurare. Si tratta di sofferenze materiali ed immateriali che non vengono rimosse e non vanno cancellate per così ridare la giusta e meritata dignità di vita alla Campania nostra, un tempo terra “Felix” e di grandi saperi.