Primarie: dai Radicali al “partito della nazione”

Amedeo Tesauro
Quando le primarie sono comparse nel sistema politico italiano a opera del centro-sinistra – era il 2005, prima per le regionali in Calabria e Puglia, poi per il candidato alle politiche dell’anno successivo – hanno subito assunto uno status di conquista democratica, un netto passo avanti nella selezione dei propri rappresentati. Tuttavia ci è voluto poco per accorgersi dei limiti del sistema, diverso da quello statunitense a cui pur si ispira, in primis polemizzando sulla partecipazione popolare che consente di votare anche a chi ha legato col partito troppo recentemente, magari giusto in occasione delle elezioni (le polemiche sui cinesi a Milano non sono nuove, simili circostanze erano già state denunciate in altre città in passato). Di poi il pericolo per la segreteria in carica di vedere i propri piani ribaltati dalle urne: il sindaco uscente Giuliano Pisapia non era certo la scelta preferenziale del Partito Democratico per Milano alle scorse primarie, stesso dicasi per Marco Doria a Genova e l’alieno Ignazio Marino a Roma. Stavolta, però, a Milano la scelta di Renzi, l’ex commissario Expo Giuseppe Sala, vince e si prende la nomination, come si direbbe negli Stati Uniti. E vince un ulteriore rischio connesso alle primarie, la vittoria dei radicali. Già, perché chiedere al proprio elettorato di riferimento chi votare rischia di eleggere un rappresentate ideale per il popolo di un partito, ma non ideale per vincere l’intera cittadinanza. Potremmo definirlo “effetto Trump”, la possibilità di trovarsi alle presidenziali un nome poco appetibile per la maggioranza del paese (eppure alla prima in Iowa lo stesso Trump ha steccato, col trionfo a sorpresa di Ted Cruz). Giuseppe Sala, invece, è esattamente l’opposto di un radicale, uno che nelle primarie di un partito di sinistra arrancherebbe senza sosta, condannato a fare da figurante mentre altri si spartiscono la vittoria. Ma il Partito Democratico è un partito di centro-sinistra, ad andar bene direbbe qualcuno, e con la segreteria di Matteo Renzi sempre più ha attuato un processo che ha messo ai margini i radicali, la vecchia sinistra poco appetibile per l’elettorato, aprendo invece al centro; accordi, alcuni da storcere il naso, altri apparentemente indifendibili (vedi il caso Verdini), ma accordi atti a garantire le riforme e la propria sopravvivenza. Il Partito Democratico, in altre parole, è divenuto una sorta di Democrazia Cristiana, al centro della scena politica, diviso internamente, con l’occhio a sinistra e la voglia di catturare non i radicali di sinistra, già fuggiti altrove, ma i moderati di centro-sinistra, alcuni più al centro alcuni più a sinistra. Il partito della nazione? Renzi nega, ma intanto a Milano vince un manager e moderato, il quale con ogni probabilità dovrà giocarsi il ruolo di primo cittadino col candidato di centro-destra Silvio Parisi, altro manager e imprenditore, e l’ex ministro Corrado Passera, anch’egli un manager. Sfida d’élite, tra membri dell’establishment, non certo l’identità classica del candidato PD, checché ne dica Matteo Renzi.