Infinite Jest

 Angelo Cennamo 

Mi siedono in un ufficio, sono circondato da teste e corpi. La mia postura segue consciamente la forma della sediaManeggiare un romanzo di David Foster Wallace è un’esperienza meta-letteraria. E’ letteratura ma anche qualcos’altro: un lievissimo choc, direbbe il Troisi di Ricomincio da tre. Un viaggio senza ritorno nelle viscere dell’umanità, il tentativo di esplorare un luogo sconosciuto di noi stessi e del mondo che ci sta intorno da una prospettiva nuova, inusuale, a metà strada tra l’iperrealismo e la follia. Ma perché uno scrittore oscuro e difficile come Wallace piace così tanto? Perché in quelle oscurità forse ritroviamo le nostre malinconie e le nostre insicurezze. Perché non esisteva scrittore vivente dotato di un virtuosismo retorico più autorevole, emozionante e inventivo del suo: I tergicristalli dipingono arcobaleni neri sul parabrezza luccicante dei taxi.  Infinite Jest  è un libro che per la sua mole – 1.280 pagine fittissime – incute terrore e scoraggia anche i cultori più incalliti della parola scritta. Lasciare però quel malloppo di carta in bella vista sulla scrivania alla stregua di un fermacarte qualunque o di un vecchio almanacco, temendo che la smisurata lunghezza possa annoiare o peggio logorarci i nervi fin dai primi capitoli – può accadere se non si è rodati al postmoderno spinto – è più di un peccato veniale: è negarsi a una rigenerazione emotiva che dopo tutto finisce per amplificare la nostra qualità di lettori – dopo aver letto Wallace si diventa lettori terribilmente esigenti. Una catarsi dunque. Ma prima della catarsi, il supplizio, sfiancante, ai limiti della sopportazione.Infinite Jest  è un romanzo meravigliosamente faticoso. Nei momenti di scoramento si ha voglia di lanciare il mattone contro la parete della camera da letto e maledire il critico della rivista o l’amico – in questo caso nemico – che ne ha consigliato l’acquisto. Ma dura poco. Dura poco perché dai libri di Wallace e dallo stu-po-re che generano le sue trame è difficile stare lontani. Quel vigore narrativo sempre sopra le righe, quella capacità rara di destare curiosità con un semplice dettaglio o con un dedalo di assurde coordinate dentro il quale ritrovare il soggetto della frase principale può diventare un vero rompicapo: è questo il genio letterario di Wallace. Infinite Jest  è un murales di emozioni profonde, dipinto con una prosa schizofrenica e così argomentativa da cancellare quasi la distinzione tra narrativa e saggistica. Un romanzo fluviale senza trama e senza un vero finale che racconta di una società rassegnata al proprio annientamento psichico e fisico. In un tempo imprecisato e sponsorizzato gli Usa avranno inglobato il Messico e il Canada in una supernazione chiamata ONAN. Wallace ambienta il romanzo all’interno dell’ETA ( Enfield Tennis Academy), un liceo per giovani promesse del tennis che sognano di  giocare nell’ATP “lo Show”, e all’Ennet House, un centro di riabilitazione per alcolisti e drogati che puzza del tempo che passa. Come tutti i protagonisti della storia, i ragazzi dell’ETA sono sopraffatti dalla noia e invischiati nell’uso di sostanze ricreative.  Infinite Jest è anche il titolo di un film misterioso che ipnotizza gli spettatori condannandoli ad una pericolosa assuefazione. Un’arma letale che può cambiare il corso degli eventi. Eccoci  dunque al tema del romanzo: la dipendenza. Dipendenza da qualunque cosa, non solo dall’alcol e dalle droghe. Forse anche dallo stesso libro che imprigiona il lettore più intrepido fino alle note del post scriptum in una sorta di stato catatonico: il magnetismo di Wallace è un argomento da approfondire, da studiare. Dicevamo della trama come espediente dell’autore per raccontare molto altro attraverso divagazioni su fatti, luoghi e personaggi, seguendo i consueti schemi labirintici ai quali the genius ci ha abituato per guidarci nel suo mondo enigmatico e ricco di suggestioni: dilatazioni spazio-temporali, periodi lunghi e frammentati senza mai un capoverso, punteggiatura fantasiosa. Un tracciato avventuroso che ci lascia senza fiato, attoniti. Del realismo isterico di Wallace e dell’impossibilità di cogliere fino in fondo tutte le sfaccettature della sua grammatica mentale non si può dire di più. La cosa più faticosa della mia vita dice Edoardo Nesi che del libro ha curato la traduzione in italiano. Cos’altro aggiungere: Infinte Jest  è un romanzo monumentale in ogni senso – il tomo è alto quanto il palmo di una mano – scomodo anche nell’approccio fisico. Ma è un’opera superba e irripetibile che attraversa molti generi, una scheggia di autentica bellezza tra i classici della letteratura moderna. Un libro che non si dimentica.