Addio alle armi

 Angelo Cennamo 

Pare che un giorno Cesare Pavese abbia fatto leggere un libro ad una sua ex allieva di liceo perché comprendesse la differenza tra la letteratura americana e quella inglese. Il libro era “Addio alle armi” di Ernest Hemingway, l’allieva Fernanda Pivano. Di lì a poco la Pivano sarebbe diventata la traduttrice in italiano dei romanzi di Hemingway oltre che uno dei maggiori esperti di narrativa nord-americana. Leggevo le pagine inziali della prefazione e riflettevo su come nelle scuole italiane i grandi autori come : Camus, Proust, Joyce, Marquez, Tolstoj, Kafka vengano sacrificati o del tutto ignorati per fare spazio a scrittori e poeti nostrani, non sempre all’altezza dei loro colleghi stranieri: Pascoli non vale Prevert; Carducci non è neppure paragonabile a Borges; Tra Calvino e Bellow c’è più di un oceano.  Ma veniamo a Hemingway e a uno dei suoi straordinari capolavori.  “Addio alle armi” fu pubblicato nel marzo del 1929; in Italia il romanzo venne oscurato ( oltre che dal ministro della pubblica istruzione) dal regime fascista, perché metteva in cattiva luce il valore militare italiano: la trama del libro, infatti, culmina con la disfatta di Caporetto, che nella versione di Hemingway è molto diversa da quella edulcorata, camuffata, opacizzata dei manuali scolastici. La fuga dal fronte, drammatica, rischiosa , lascia i lettori col fiato sospeso fino all’ultima pagina.  Ma “Addio alle armi” non è soltanto un romanzo sulla diserzione: è soprattutto una romantica ed intensa storia d’amore tra un tenente americano ferito dallo scoppio di una granata e un’infermiera inglese. L’amore e la guerra, nello sviluppo della trama, si intrecciano in modo inestricabile dando vita ad un vortice di sentimenti e di passioni che ha pochi precedenti nella letteratura mondiale. Il racconto è avvincente, ma dentro la fiction scorre lo straordinario reportage di un giornalista che vive sulla propria pelle un pezzo importante della storia d’Italia ( la prima guerra mondiale). L’opera è sincera e non cede alla retorica dell’eroismo o alla banale idealizzazione patriottica. Distinguere l’Hemingway romanziere dal cronista o dal soldato al fronte non si può: verità e finzione si mescolano in un crogiolo di visioni e di suggestioni uniche. Ne viene fuori una narrazione vivida, di rara bellezza, sciorinata con stile sobrio, apparentemente disadorno: Hemingway descrive luoghi e personaggi senza usare una sola parola superflua, ma non omette nulla di quanto serva al lettore per sentirsi al centro della scena, avviluppato dall’atmosfera feroce e violenta delle battaglie e da quella erotico-sentimentale degli incontri furtivi tra il giovane Henry e miss Barkley. Un continuo perdersi per poi ritrovarsi in una grande avventura attraverso montagne, città, ospedali, laghi e strade sconosciute. Una corsa infinita e disperata verso la libertà. Non si può morire senza aver letto Hemingway.