Quale Sindaco per Salerno?

Aurelio Di Matteo

La tornata elettorale per dare un nuovo sindaco alla città di Salerno è ormai alle porte. Il prossimo evento primaverile, oltre che astronomico, sarà anche politico-amministrativo? Nei partiti si discute e ci si propone; ma il dibattito, aperto o implicito che sia, somiglia più alla torre di Babele che a una finalizzata e adeguata ricerca. E poi c’è l’area del consolidato decennale potere che aspetta la scelta del “feudatario”! Nel panorama politico e culturale locale non mancano certo personalità degne di proporsi al governo della città, per competenza, onestà ed esperienza. Qualcuno, anzi, può vantare un curriculum di ottimo e coerente profilo, sia amministrativo sia politico sia istituzionale, nonché una lunga esperienza della vita e della macchina amministrativa che rappresenterebbero un sicuro e ampio patrimonio di competenza per essere proposto come guida di Salerno, una città bella, complessa e purtroppo, dopo la fattiva, propositiva e breve stagione del sindaco Giordano, rimasta da venti anni in nuce. Checché si voglia far credere nei quotidiani o settimanali messaggi multimediali! In genere ci si chiede come dovrebbe essere il sindaco: giovane dinamico o giovane pensante? rottamatore o incardinato politico? esperto d’amministrazione o espressione inesperta della cosiddetta società civile? avvocato o ingegnere? psicologo o botanico? medico o generale in pensione? Credo che dopo il lungo elenco di nomi che si potrebbero indicare, al maschile come al femminile, sarebbe più valido non partire dalle persone, dalla ricerca di una leaderschip e di un carisma, dal culto della personalità o dall’uomo solo al comando, men che mai dall’identità di genere o di professione. Ancor peggio se si pensasse a un erede “designato”, inevitabilmente destinato a essere un consumatore di “ricariche” telefoniche per prendere ordini quotidiani dal suo feudatario! Soprattutto sarebbe ora di smetterla con la ricerca di una leaderschip, di un sindaco sceriffo o di un sedicente decisionista a prescindere. Anziché dal nome, sarebbe cosa valida cominciare prefigurando uno stile e un costume, un modo di relazionarsi e di intendere il “potere amministrativo”. Leadership e sceriffi vanno bene per un’azienda privata, il cui fine è l’utile e il profitto individuale. Un’istituzione pubblica, invece, consegue fini, obiettivi e star-bene collettivi soltanto con una tipologia di gestione che non dovrebbe mai esprimersi con un sitema di convinzioni solipsistiche e di scelte autoritarie, ma fondarsi su relazioni partecipate. Due modi diversi di intendere il “potere amministrativo”: il primo è quello tipico dell’autoritarismo che proviene e s’impone dall’alto, il secondo dell’autorevolezza che deriva dal basso e si sottopone a continua verifica e condivisione. È una metodologia amministrativa che richiama l’antica democrazia dell’agorà contrapposta a quella attuale del branco. La prima, che deriva dalla vita politica ateniese, si basa sul principio della partecipazione e dell’ascolto, del governo sottoposto al controllo dei cittadini e del potere che fluisce dal basso. Splendidamente il politologo prof. Dahl definisce con “ricettività” la caratteristica fondamentale di questo sistema politico. La democrazia dell’agorà costruiva il potere e il governo nel rapporto concreto che si svolgeva nella “piazza”, per cui la sfera pubblica diventava lo spazio dell’uso pubblico della ragione e il luogo comunicativo del convincere o dell’essere convinti, per maturare collettivamente atti di governo. Negli ultimi venti anni di questa metodologia e pratica si è, di fatto, perduto anche il ricordo. Nella concretezza  pratica  per essa si contrabbanda la “democrazia del gruppo”, meglio espressa con la relazionalità del branco. La sua metodologia è quella del potere a flusso discendente, delle idee chiare, evidenti, non criticabili e quasi mai utili ai cittadini e alla città: insomma dell’intolleranza verso la diversità della proposta. Cominciamo allora dal proporre un sindaco che nello stile amministrativo e della governance non usi un linguaggio triviale e non si ispiri alla cultura del disprezzo, della supponenza, della tracotanza e dell’insolenza; che ascolti i cittadini, non ripeta il vuoto e saccente ritornello quotidiano da neo messia ed eviti un settimanale soliloquio televisivo da depositario della verità; un sindaco che ridia ai cittadini il concreto diritto di cittadinanza, che non si esprime solo nel momento del voto e poi si trasforma in forzata obbedienza; che inauguri meno cementificazioni pubbliche virtuali, meno eco-mostri privati, meno mal funzionanti fontane e più luoghi di socializzazione e più ordinaria vivibilità dei cittadini; che crei meno società partecipate, meno invasive luminarie, meno tassazione  e più risanamento di debiti pubblici e partecipazione dei cittadini, che insieme con un nuovo stile amministrativo ridia alla città uno stile di vita comunitaria, di sana accoglienza, di pulizia diffusa, di ritorno produttivo per tutti e di consapevole coinvolgimento, espressioni della politica dal basso, con meno branco e più agorà. E soprattutto un sindaco dal volto e “pulito”.