La Confraternita dell’uva

Angelo Cennamo  

Tutti i romanzi di John Fante sono autobiografici. Fante cambia i nomi ai personaggi, talvolta ai luoghi; adatta fatti e circostanze alla trama del racconto, ma in ogni pagina dei suoi libri ritroviamo brandelli di vita vissuta, sogni, ambizioni, incontri avventurosi, sentimenti profondi , passioni laceranti. “La confraternita dell’uva”, pubblicato nel 1974, segna il momento più alto della popolarità dello scrittore italo-americano: milioni di copie vendute in tutto il mondo e l’interessamento di Francis Ford Coppola per la sua versione cinematogafica. Qualche anno dopo (1979), accecato dal diabete, Fante detterà il suo ultimo romanzo “Bunker Hill” alla moglie Joyce prima di congedarsi dai lettori e dalla vita. “La confraternita dell’uva” è la storia di quattro italiani, vecchi e ubriaconi, tra i quali si erge la figura di Nick Molise, padre di Henry, scrittore di successo e alter ego di Fante. “Nick Molise era qualcosa di più che il capofamiglia. Era giudice, giuria e carnefice. Geova in persona. Non gli piaceva quasi niente, in modo particolare sua moglie, i suoi figli, i vicini, la chiesa, lo Stato, il suo paese, il paese dal quale era emigrato. Non gli importava un fico secco del mondo intero. Ma le donne gli piacevano. Gli piaceva pure il suo lavoro e una mezza dozzina di paisani che, come lui, erano italiani del genere dittatoriale”. Nick si definiva un impresario edile, ma Henry era abituato a considerarlo uno scultore perché aveva costruito e modellato mezza San Elmo, il suo Louvre a cielo aperto, il borgo californiano dove vive con la moglie e gli altri tre figli. Nick era stato un muratore superbo, veloce e preciso, il primo scalpellino d’America, ma anche un tipaccio burbero che non ha mai sopportato la fuga di Henry dal suo mondo di mattoni, malta e cazzuole, per abbracciare la letteratura: che razza di lavoro è quello dello scrittore? Ma a cinquant’anni e nel pieno della popolarità, Henry torna a San Elmo, forse per uno stratagemma ( gli hanno detto che i suoi vecchi stanno per divorziare). E’ un viaggio a ritroso nel tempo attraverso il quale il protagonista del romanzo ritrova la propria giovinezza e la vecchia casa “italiana” con gli odori e i sapori della terra d’origine “la cucina era il vero regno di mia madre, l’antro caldo della strega buona sprofondato nella terra desolata della solitudine, con pentole piene di dolci intingoli che ribollivano sul fuoco, una caverna di erbe magiche, rosmarino e salvia e origano. L’altare erano i fornelli, il cerchio magico la tovaglia a quadretti dove i figli si nutrivano”. Piatti succulenti della tradizione mediterranea, certo, ma a farla da padrone è il vino di Angelo Musso: fiumi di vino scorrono a San Elmo dalle botti di questo straordinario personaggio che Fante ci descrive basso, tarchiato, pelato e senza voce a causa di un tumore alla laringe. Musso parla a gesti, sorride, annuisce e soprattutto beve, beve in continuazione come gli altri della confraternita: Zarlingo, Cavallaro, Antrilli. E come Nick Molise, che di quel nettare prelibato non può fare a meno, neppure quando il medico glielo proibisce. Il vecchio padre padrone convince Henry a rimandare la partenza per salire insieme a lui in montagna e realizzare l’ultimo lavoro: un affumicatoio di pietra commissionatogli da Sam Ramponi, altro membro della confraternita. Henry ha ben altri pensieri:  deve tornare a Los Angeles dal suo editore. Alla fine però cede al richiamo di Nick. Obbedisce.  I due partono con un furgone scassato alla volta delle Sierras, scortati da Cavallaro e Zarlingo. Per Nick Molise sarà l’ultima avventura, forse la più emozionante. Sarà altrettanto per Henry, che in quella settimana di duro lavoro imparerà a conoscere suo padre come non aveva mai fatto prima. Commovente, intenso, comico e molto italiano: a metà strada tra un racconto di Hemingway e lo Zappatore di Mario Merola.