La scuola che ci fa ignoranti

Angelo Cennamo

    L’estate volge al termine e si riaprono le scuole. Tempo di libri; nuovi o usati, comprati e venduti, prestati, passati da un fratello all’altro. Scarabocchiati, con le cancellature e con le copertine plastificate.  Intonsi, profumati, imbustati. Le penne, i diari, i quaderni, gli zaini. E poi le cattedre, quelle precarie e quelle stabili. Le supplenze, le graduatorie con le file interminabili ai provveditorati. Lo striscione di protesta, i ricorsi al tar. I trasferimenti e le mancate assegnazioni. Le iscrizioni alla prima classe, i bollettini, gli allegati , il modello Isee. Tuo figlio in che sezione? Come il mio. La campanella, tutti in classe. Respiro profondo. La liturgia dell’istruzione ci coinvolge, ci travolge, ci incanala ( tutti insieme) nel flusso vitale delle relazioni più intime e ci fa sentire comunità. La fotografia di un divenire dentro il quale ciascuno rivede ciò che è stato o ciò che sarà. La scuola è la speranza,  alle volte tradita, di una felicità sudata ma raggiungibile. Ma oltre la forma, la sua poetica ritualità da libro Cuore, esistono anche le dolenti note, quelle che anno dopo anno vedono l’Italia arretrare pericolosamente nei bassifondi della conoscenza. Uno studente su due non ha mai letto un libro ( il dato è nazionale. Meglio non addentrarsi nei numeri della Calabria e della Campania), e non ha mai visitato un museo. Fatica più del dovuto a risolvere un problema di matematica e a leggere e comprendere il significato di un testo. L’Italia ha meno laureati e meno diplomati degli altri Paesi europei e ha meno lettori di libri e quotidiani. In compenso, siamo primi nel mondo per numero di telefonini. Con la cultura non si mangia, disse un noto ministro. E difatti la distanza tra ricchezza e cultura, nel belpaese, è più ampia che altrove. Dalle nostre parti, non sono tante le persone erudite che possono avvantaggiarsi della loro sapienza in termini economici. Basti dare un’occhiata agli stipendi degli insegnanti, dei ricercatori universitari, dei giornalisti. Del resto, se non legge nessuno, come si alimenta l’industria della cultura? Come si arricchisce un editore, uno scrittore,  un libraio, il proprietario di museo? Come si difende Pompei dai crolli e dall’inefficienza? E’ un peccato,  un vero spreco, possedere tanta bellezza ma non saperla riconoscere, e non saperla difendere dall’incuria, dall’abbandono. O peggio, dall’indifferenza.