La “Buona Scuola” di Renzi, catastrofe nazionale!

È difficile, a una prima lettura, avere ragione della materia caotica, difforme, contraddittoria e delirante della “Buona Scuola” di Matteo Renzi: alla fine della lettura si ha la sensazione di trovarsi in un guazzabuglio di cose da cui è impossibile districarsi, almeno sul momento. Poi si ritorna a leggere il disegno di legge 2994 e ci si augura che non diventi mai testo di legge, considerando che getterebbe nello scompiglio coloro che dovranno interpretarlo, i poveri docenti della scuola pubblica italiana a cui si chiede di fare da “cavie” per questo ennesimo esperimento didattico, frutto di un dilettantismo culturale della nostra classe dirigente, giunto ormai a un livello d’ignoranza, così diffuso da farci disperare del nostro futuro prossimo e lontano. Se, infatti, c’è da ridere per i nominalismi tipo “problem-solving”, “decision-making”, “merit-pay”, “mentor”, “byod” (“bring your own device”, ’porta il tuo dispositivo’), tutti declinati in lingua inglese per indicare le nuove “competenze” di cui deve armarsi il docente di oggi chiamato a insegnare un sapere non più solamente codificato (“più facile da trasmettere e da valutare”, secondo quanto recita il DdL 2994), ma aperto ai modi nuovi di pensare, ai nuovi metodi di lavorare, alle tecnologie impiegate soprattutto nel campo della comunicazione e collaborazione, alle abilità per la vita, allo sviluppo professionale per vivere nelle democrazie moderne, c’è poi da piangere quando si giunge al punto centrale della “Buona Scuola” che il giovanotto di Firenze vanta come una “riforma epocale”: la qualità dell’insegnamento in classe e come il docente può dimostrare quanto essa vale. Ed ecco che avanza un sostantivo preso pari pari dalla terminologia bancaria: “credito”. Nei vari dizionari italiani “credito” è riportato come il diritto ad avere una somma di denaro. Il suo contrario è “debito”. Ebbene per il DdL 2994 il docente potrà dimostrare quanto vale la qualità del suo insegnamento accumulando “tre crediti”, “didattico”, “formativo”, “professionale”. Il primo viene riconosciuto al docente in base all’attività svolta per migliorare l’apprendimento degli studenti; il secondo in base all’attività profusa nella ricerca e produzione scientifica per la propria formazione professionale, il terzo in base all’attività messa in opera per sostenere l’organizzazione scolastica sia nei suoi aspetti ordinari (ad es. in fatto di coordinatori di classe) che in quelli progettuali. Qualora il docente riesca, in uno spazio temporale di tre anni, ad accumulare i tre “crediti” a cui corrispondono i cosiddetti “scatti di competenza” in sostituzione di quelli di “anzianità” soppressi, egli vedrà arricchirsi il suo “portfolio” (anche questo un sostantivo preso a prestito dalla terminologia bancaria!) che, oltre ad assicurargli un trattamento economico “differenziato” in ragione di una quota-parte di un fondo aggiuntivo disposto dal Ministero per il 66% di tutti i docenti presenti nella medesima scuola, gli permetterà di alternarsi fra cattedra e organico funzionale per chiamata diretta da parte del “preside-manager” o di essere investito del ruolo di “mentor” dal Nucleo di Valutazione Interno (di cui poi farà parte, n.d.r.), emergendo come la seconda figura gerarchica della struttura scolastica dopo quella dello stesso “dirigente-manager”. È evidente, in questo “combinato disposto” tra “crediti” riconosciuti al docente “attivo” e suo trattamento economico “differenziato” rispetto a quello del suo collega “passivo”, l’intento nemmeno nascosto della riforma di Renzi d’innescare una specie di gara tra i docenti medesimi per ottenere dal “dirigente-manager” o dal Nucleo di Valutazione Interno di ciascuna scuola la certificazione dei “crediti” con relativa assegnazione del “portfolio”, con l’immaginabile accendersi intorno alla figura dello stesso “dirigente-manager”, accentratore di ogni decisione in merito alla formazione degli organici funzionali, di una corte di docenti disposti a sacrificare la propria autonomia e libertà di insegnamento per la conquista del “premio di produttività”, come se la scuola fosse un’azienda e non il luogo della formazione umana ed integrale del cittadino in democrazia. Ma il parossismo della comicità poi la “Buona Scuola” lo raggiunge allorquando nel Capitolo 2, alla voce “la mobilità dei docenti per migliorare tutte le scuole”, recita così: “Di tutti gli aspetti del nuovo sistema c’è né uno più importante di tutti ed è che l’unità di riferimento del calcolo del 66% sia la singola scuola (o la singola rete di scuole) perché eviterà distorsioni e anomalie (casi di scuole dove i docenti sono sempre tutti nel primo 66%)”. La traduzione possibile di questo brano di letteratura ministeriale è questa: poiché nella scuola X si dà il caso che tutti i docenti siano “bravi” e quindi per il loro numero eccedente il calcolo del 66% non possono maturare gli scatti di “competenza”, è ragionevole pensare che alcuni di questi medesimi docenti potrebbero considerare l’opportunità di spostarsi in scuole dove la media dei “crediti” dei loro colleghi è relativamente bassa, aiutando queste scuole deficitarie a livello di qualità d’insegnamento ad invertire la tendenza e a mettersi anch’esse in gara per il “premio di produttività aziendale”. In parole povere Renzi è convinto che, per la teoria dei “vasi comunicanti”, questo meccanismo escogitato da lui e il ministro Stefania Giannini sarebbe in grado di ridurre la disparità tra la scuola di Scampia, uno dei quartieri più degradati della periferia di Napoli, e la scuola dei Parioli, uno dei quartieri più affluenti ed eleganti di Roma.

Gerardo Corrado