Gap tra poveri e ricchi e nuove tecnologie: seconda età delle macchine

Amedeo Tesauro

Mentre da anni si rincorrono le voci di una ripresa mondiale e si annunciano prospettive più rosee per il futuro, non in pochi si interrogano sulla stabilità di un sistema economico che oggigiorno sembra aver raggiunto il suo limite. Non è la fine del capitalismo e del libero mercato, eppure da più parti si sostiene la necessità di ripensare dinamiche e logiche profittevoli e societarie. Del resto non stupisce più nessuno ormai che FIAT si accordi con gli americani e molli il paese per produrre altrove, rientra proprio in quelle logiche succitate per cui bisogna abbattere i costi per aumentare i guadagni, un’operazione che nei decenni ha causato una guerra tra poveri nei paesi del Sud America e dell’Africa, pronti ad abbassare i prezzi a livelli disumani. Il sistema è saturo, e l’Occidente l’ha compreso solo da una ventina d’anni, in concomitanza con le pressioni di movimenti e associazioni che hanno denunciato gli effetti collaterali della nostra società. Per lungo tempo la colpa della crisi dell’Occidente è stata data a determinate politiche liberiste perseguite negli anni ottanta, alle scelte neoliberiste operate da paesi leader come l’Inghilterra e gli Stati Uniti, accusati di aver aumentato la distanza tra ricchi e poveri. Eppure sembra esserci dell’altro dietro un sistema che pare sull’orlo del collasso, seminando povertà non solo tra i paesi del terzo mondo ma anche presso la popolazione occidentale che per lungo tempo ha vissuto inconsapevole di certi processi. Ecco dunque rivelarsi ulteriori elementi che in poco tempo hanno minacciato e smantellato l’assetto industriale e produttivo dei paesi avanzati: lo sviluppo delle tecnologie dell’informazione. La tesi può sembrare quanto mai vecchia, del resto da sempre si afferma che il progresso distrugga posti di lavori, fin dai tempi della prima rivoluzione industriale. Ciò è sempre stato falso, giacché se certi posti di lavoro sono inevitabilmente sacrificati all’altare del progresso, tanti altri se ne creano con le nuove risorse a disposizione. Oggi non è più così. Il volume “The Second Machine Age”, appena uscito ad opera degli accademici Erik Brynjolfsson e Andrew McAfee, ha creato discussione tra le due sponde dell’Atlantico proponendo lo spunto: fino ad oggi ogni rivoluzione tecnologica ha creato occupazione e profitti, ora la rivoluzione digitale fa l’opposto. Nella seconda età delle macchine, come il titolo recita, spopolano e fatturano aziende con un personale limitato in grado di creare servizi per miliardi di persone; Facebook, ma non è differenti per altri colossi del settore, utilizza a malapena 5 mila dipendenti, una miseria se confrontata ad altre multinazionali. L’informazione è il business del presente e lo sarà sempre più nel futuro, eppure solo un numero limitato di persone con certe competenze potrà entrarvi, e ciò aumenterà il dislivello tra ricchi e poveri, già cresciuto negli ultimi decenni. Esiste una soluzione o il processo di selezione raggiungerà un simile stadio? Gli autori non mostrano soluzioni, il loro studio si limita a evidenziare i futuri sviluppi di una società giunta ad un punto cruciale della propria storia, destinata a fare i conti con una rivoluzione tecnica che rischia di aggravare i divari sociali.

 

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