Il New York Times e gli stereotipi sull’italianità da non alimentare

Elia Fiorillo

Anche il New York Times può sbagliare, ci mancherebbe. Il problema è se l’errore è stato indotto da stereotipi folcloristici legati all’italianità. Lo sbaglio, in questo caso, può essere rettificato quanto si vuole, ma certe idee erronee sono destinate a rafforzarsi nei lettori. E’ quello che succede nella diffamazione: una volta lanciato il dubbio, non c’è rettifica che tenga. Ma, cominciamo dall’inizio. Tom Mueller è un giornalista americano che si è appassionato al nostro Paese e ha scritto un libro sull’olio d’oliva made in Italy. Quasi in contemporanea alla presentazione della pubblicazione alla Camera dei Deputati, il Times pubblica quattordici vignette di Nicholas Blechman, dal titolo: “Extra virgin suicide – The adulteration of italian olive oil”, fonte proprio Tom Mueller. Le vignette, molto efficaci e ben disegnate, mostrano un’Italia, diciamo così, vocata a delinquere nel campo dell’olio d’oliva. In verità l’idea-immagine che ne esce fuori, più in generale, è di un popolo di truffatori, gli italiani. “Il 69 per cento dell’olio proveniente dall’Italia – e destinato agli Stati Uniti – è tagliato e adulterato nel porto di Napoli. Enti preposti al controllo – come i Corpi Speciali dell’Arma dei Carabinieri – incapaci di fare quello per cui sono addestrati, ovvero contrastare le frodi. Istituzioni politiche conniventi che con la loro influenza impediscono che i truffatori siano indagati per legge”. Insomma, ce n’é per tutti. Nella sala stampa della Camera dei Deputati, gremita d’invitati, Mueller prende le distanze dal Times. Lui non c’entra. “Le immagini sono carenti di fatti”, afferma. E, ancora, racconta che la redazione del giornale americano lo ha contattato per chiedergli se c’era da fare una rettifica, a riprova che l’ispiratore era proprio lui. Poi, mette le mani avanti, sostenendo che se ci fosse stata negli Stati Uniti la Legge Mongello, certe cose non sarebbero capitate. Insomma, l’Italia è ok dal punto di vista dei controlli, è l’America che è carente. Proprio l’incontrario di quello che le vignette fanno capire. Assitol e Federolio, le organizzazioni dei confezionatori, non ci stanno alla denigrazione: “Un quadro che offende – in modo assolutamente spregiudicato e probabilmente anche strumentale – l’Italia tutta”. Va ricordato che l’industria olearia italiana è la numero uno nel mondo. Per la bilancia commerciale nazionale vale 1 miliardo di euro, con 200 aziende che occupano più di tremila lavoratori. Non è che tra loro “furbi” non ce ne siano, ma in fatto di controlli l’Italia non è seconda a nessuno. Il vero problema, tutto italiano, è che noi non facciamo squadra. Non riusciamo, non solo nell’olio di oliva, a portare avanti gli interessi comuni dei produttori e dei confezionatori. Facciamo pasticci sul piano dell’informazione, accusandoci a vicenda, con il bel risultato di passare tutti, nessuno escluso, per “truffatori”. C’era un tempo in cui la contrapposizione tra “padroni” e “classe lavoratrice”, sul piano del consenso politico e sindacale, era vincente. Era l’epoca delle ideologie, del comunismo e del capitalismo, delle divisioni manichee della società. Erano tempi facili per gli attivisti sindacali e politici. Il bene stava tutto da una parte; il male ovviamente tutto dall’altra. Guai ad ipotizzare patti di gestione con la controparte. Ti prendevano per pazzo. Per fortuna si è voltato pagina, anche se oggi è più difficile di ieri “tenere la piazza”. Hai bisogno d’idee, progetti, soprattutto confronto. Le parole d’ordine ripetute in tutte le salse non servono più: non convincono la gente. Certo, ti puoi chiudere in te stesso disconoscendo quello che avviene intorno a te. Puoi rompere tutti i rapporti e continuare a ripeterti in un soliloquio, che diventa un vero training autogeno, quello che più ti piace e che vorresti che fosse. Ma alla fine il risveglio ci sarà, perché quelli che pensi di difendere si renderanno conto che “il piccolo è bello”, o le barriere protezionistiche, non risolvono i problemi dell’economia del prodotto. Che bisogna confrontarsi a mare aperto e non nella piscina di casa propria. Che bisogna mettere mano a riorganizzare i fattori della produzione puntando all’allargamento della base produttiva anche attraverso la cooperazione. Che la competizione passa, al di là della qualità, anche sui costi di produzione. E se queste cose son vere, allora tutti i provvedimenti, gli indirizzi, i piani devono puntare a quelle priorità in un ottica nazionale.
Non tutti i mali vengono per nuocere. L’informazione “negativa” del Times ci deve far riflettere e, soprattutto, cambiare strada. Siamo nel villaggio globale, non ci possiamo permettere errori d’informazione che poi si trasformano in immagine negativa per il Paese tutto. Speriamo che la lezione ci serva.

 

 

 

 

 

 

 

2 pensieri su “Il New York Times e gli stereotipi sull’italianità da non alimentare

  1. il libro di mueller è un’inchiesta precisa del panorama dell’olio extravergine in Italia. nazione leader a livello mondiale per qualità e valore aggiunto sull’olio d’oliva. mueller spiega esattamente che in Italia convivono i più grandi confezionatori-miscelatori mondiali, che hanno un storica capacità di acquistare olio nel mercato mondiale, specialmente spagna, grecia e nord africa, miscelarlo con piccolissime quantità di olio italiano e immettere nel mercato prodotti di ottimo rapporto qualità/prezzo, e i piccoli produttori, raramente appartenenti a deonimazioni d’origine, che fanno un eccellente prodotto: il migliore di tutti con caratteristiche sublimi -odore, sapori, gusto- sia a livello organolettico che a livello di salubrità.
    il nodo è tutto questo, per avere un olio evo di qualità e italiano non si può spendere meno di 9/10 € a litro, al di sotto di questo livello non si ripagano i costi di produzione.
    i miscelatori invece grazie alle loro capacità e conoscenze riescono a portare un aumento di valore dell’olio fino al mille per mille (in nord africa un litro diolio viene pagato anche 0,20/0,30 €/l).
    la stessa cosa succede con l’aceto balsamico di modena, vi è quello tradizionale che viaggia intorno a 1000/1500 €/l e quello dell’industria agroalimentare che viaggia intorno a 4/8€/litro.
    converrà che vi è differenza e che forse andrebbero difese entrambe le produzioni senza però giocare sull’equivoco che porta la produzione di altissima qualità a trainare quella massiccia dell’industria senza però che la prima ne abbia nessun ritorno economico. forse non si sa che l’olivicoltura italiana sta scomparendo insieme a tutto un patrimonio genetico e culturale poi non più recuperabile.

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