60 anni di RAI, dal glorioso passato al difficile presente

Amedeo Tesauro

Scattano le celebrazioni per i sessanta anni della televisione pubblica, e ritornano sullo schermo gli spezzoni storici animati dai grandi del passato. Sketch noti, segmenti visti e rivisti, eppure sempre piacevoli per l’appassionato che ricorda o, semplicemente, scopre quel che passava il piccolo schermo decenni fa. Eppure non è solo un’operazione nostalgia inserita nelle celebrazioni, da anni i programmi televisivi composti da vecchio materiale fanno ascolti di rilievo, riaprendo il dibattito sulla qualità del servizio pubblico. Il passato viene così ampiamente mitizzato, rammentando un tempo in cui la RAI offriva sì eventi generazionali, ma mancando di ricordare come fosse giocoforza l’unica cosa da guardare per legge, una legge che dava il monopolio delle trasmissioni allo Stato, senza alternative. Probabilmente la RAI offriva allora contributi migliori di quelli attuali, ma i resoconti di professionisti e semplici spettatori dell’epoca assumono sempre i contorni del mito, tale da non riuscire a comprendere quanto ci sia di vero e quanto sia un’esaltazione postuma di un servizio pubblico che non c’è più. Facile dare la colpa dell’impoverimento dei contenuti all’avvento delle tv private, decisamente più volgari se rapportate alla RAI bacchettona del passato, eppure pensare di poter andate avanti con un monopolio statale era eventualità ai limiti della democrazia. Del resto l’introduzione delle televisioni commerciali non significa necessariamente la fine della qualità, prova ne è l’Inghilterra dove la BBC fin dagli anni cinquanta affronta una concorrenza commerciale, senza che ciò abbia mai impedito al servizio pubblico di offrire contenuti di qualità. Altri contesti si dirà, eppure si parla pur sempre di operatori statali finanziati da un canone, e l’Italia non è il terzo mondo da non potersi permettere il paragone con gli inglesi, così bisogna necessariamente concludere che tanti danni alla RAI derivino da una gestione ben diversa dalla controparte inglese. Laddove la BBC è libera ed indipendente, fiera del proprio non essere di nessuno, la RAI è da decenni bottino di guerra per i partiti politici. Certo era territorio della Democrazia Cristiana anche a suo tempo, come testimonia l’atteggiamento bacchettone che tutti riconoscono all’azienda di quegli anni, eppure l’austerità  quantomeno servì a evitare una degenerazione della qualità verso il basso. Da lì in poi attraverso nuove leggi votate alla spartizione politica dei ruoli, e naturalmente con l’ingresso in politica del proprietario dell’azienda concorrente che ha aperto mille questioni etiche sui rapporti tra media e politica, la gestione interna in RAI è stata questione caldissima destinata a ripercuotersi sulla qualità dell’azienda. Oggi rimane un gigante che rivendica il suo passato e la funzione che svolse un tempo, lottando però in un panorama televisivo che offre qualsiasi contenuto di rilievo (serie TV, informazione, cinema, sport) prima e meglio rispetto alla RAI, alla quale restano le briciole. Cosicché ciò che rimane ineguagliabile e senza confronti dell’offerta del servizio pubblico è proprio il repertorio passato, racchiuso nelle teche RAI, migliaia di ore televisive con chissà quali chicche sepolte. Eppure non si può vivere in eterno sul revival del passato che fu.