Figli di un dio minore: diritto alla vita, diritto all’aborto!

Francesca Carrano

A Firenze si è costituita, presso il cimitero di Trespiano, un’area destinata all’inumazione dei feti abortiti e subito è montata la protesta. La delibera della giunta comunale è stata vista come l’ennesimo tentativo di modificare la legge 194 che regolamenta l’aborto. Le associazioni laiche denunciano il tentativo velato di limitare e ostacolare il diritto all’aborto e di colpevolizzare le donne che si avvalgono del diritto di interrompere la gravidanza. Ma  se una donna reclama il diritto ad abortire, perché  se poi se ne avvale, dovrebbe sentirsi colpevolizzata per questa sua scelta? Anche se qualcuno puntasse il  dito, non dovrebbe risentirne, se è sicura della sua scelta non dovrebbe  curarsene. E  allora perché strumentalizzare il provvedimento adottato  dal comune  di Firenze? Non è vita l’embrione, quindi, nessun diritto all’inumazione. E per chi non è di quest’avviso? Per chi considera da subito vita il frutto della gestazione? Perché precludere a queste donne di avere un luogo in cui ritrovare il non nato? L’argomento è delicato e la materia spinosa. Quanto si sa in merito? Proviamo a fare chiarezza partendo dal chiederci dove finiscono i feti abortiti e cosa recita la legislazione in merito. La  normativa nazionale prevede per le Regioni la libertà di legiferare in modo autonomo così come i comuni possono deliberare in merito. Nello specifico, il decreto 285 del 1990 aggiorna il regolamento di polizia mortuaria del 1939 e all’art 7 recita: “a richiesta dei genitori, nel cimitero possono essere raccolti anche prodotti del concepimento di presunta età inferiore alle 20 settimana” mentre prima si potevano seppellire solo i feti dalle 20 alle 28 settimane. Il decreto permette, quindi, la sepoltura anche per i “rifiuti sanitari speciali” ovvero gli embrioni, prima destinati all’incenerimento in un impianto di termodistruzione. Il dpr 254 del 2003 disciplina lo smaltimento dei “rifiuti sanitari pericolosi a rischio infettivo” e include tra essi anche i “prodotti abortivi” destinandoli, alla stregua di garze sterili e quanto altro all’incenerimento a spese degli ospedali. Ciò quanto previsto dalla legge, nei fatti, invece, taluni nosocomi incenerivano ogni “prodotto” indistintamente, altri tumulavano d’ufficio i feti al di sopra delle 20 settimane, autorizzati dalle ASL di pertinenza. Le inumazioni avvenivano, di solito, in fosse comuni insieme agli arti amputati, considerati “parte nobile del corpo umano” a spese di ospedali o comuni. Perché, allora, tanto clamore intorno alla proposta di istituire un’area destinata ai “prodotti abortiti” a Firenze? Diritto di abortire conquistato dalla donna. Diritto di scelta per chi non vuole essere madre. Ma il diritto di chi l’aborto non lo sceglie ma lo subisce? Il diritto di chi considera l’embrione già vita e gli riconosce gli stessi diritti dei nati? Il diritto delle donne che si sentono madri anche se la gravidanza non sono riuscite a portarla a termine? Il diritto di amare come figlio un bambino non nato invece di considerarlo un problema da eliminare? Facciamo un passo indietro. Nel marzo del 2012, la giunta comunale di Firenze ha approntato una delibera che predisponeva, all’interno del camposanto di Trespiano, un’area destinata ad accogliere la sepoltura dei feti. Il provvedimento è stato congelato fino a qualche giorno fa quando è stato approvato suscitando mille polemiche. La delibera, insomma, è un atto discriminatorio verso la libertà delle donne di abortire senza essere colpevolizzate. Ma quanti Trespiano ci sono in Italia? A Milano, la giunta Formigoni, nel febbraio del 2007 ha approvato, in materia di “attività funebri e cimiteriali”, un regolamento che prevede che “tutti i feti, gli embrioni e il materiale abortivo deve essere tumulato in fosse comuni, insieme agli arti, per obbligo di legge, salvo differenti disposizioni dei genitori. L’art 11 recita: “per i prodotti abortivi di presunta età di gestazione dalle venti alle ventotto settimane complete e per i feti che abbiano presumibilmente compiuto ventotto settimane di età intrauterina, nonché per i prodotti del concepimento di presunta età inferiore alle venti settimane, la direzione sanitaria informa i genitori della possibilità di richiedere la sepoltura. In mancanza della richiesta di sepoltura, si provvede in analogia a quanto disposto per le parti anatomiche riconoscibili”. Dopo le 24 ore dall’aborto, il “prodotto” espulso non è più di “proprietà della madre”, ma della struttura sanitaria in cui si trova. Il regolamento, però, non accenna al fatto che, a prescindere dal consenso dei genitori, i resti verranno comunque inumati”. Questa mancanza ha suscitato violente reazioni da parte dei laici, dai Radicali, al movimento femminista Se non ora quando,che intendono il provvedimento ciellino come “un atto di insostenibile violenza contro il parere della donna” e “un precedente pericoloso per modificare la 194 sull’aborto”. A Torino, dopo l’approvazione del regolamento voluto dalla giunta Formigoni in Lombardia, un gruppo di infermiere dell’ospedale infantile Regina Margherita Sant’Anna, ha rivolto un appello al comune e alla Regione Piemonte, chiedendo una norma simile a quella lombarda. “Chiediamo a Torino e al Piemonte di imitare la Lombardia, dove tutti i feti, prima e dopo le venti settimane, hanno diritto a una sepoltura” –recita l’appello- “questo, peraltro, sarebbe importante anche per quelle mamme che subiscono il grave trauma di un aborto naturale: dovrebbero sapere che hanno diritto ad avere il feto se la richiesta è entro le 24 ore dall’espulsione”. A Roma si è andati oltre e, nel gennaio del 2012, il comune ha inaugurato “Il Giardino degli angeli”, un’area di 600 metri quadri, destinata ai feti di aborti spontanei e terapeutici, all’interno del Laurentino. La Regione Lazio segue la normativa nazionale: tumulazione sopra le 20 settimane, qualora non si faccia diversa richiesta. Il comune di Caserta, invece, nel luglio del 2011, ha approvato la delibera 266  con  cui l’Azienda ospedaliera locale, Sant’Anna e San Sebastiano, ha siglato un protocollo con l’Associazione cattolica Difendere la vita con Maria, già attiva in altri comuni italiani. I volontari dell’associazione si occupano, a loro spese, di raccogliere i feti in ospedale, celebrare per loro un rito religioso e inumarli. Il sindacato medico Fp-Cgil Medici ha parlato di “violenza psicologica sulle donne” e teme che l’accordo possa essere esteso anche ad altri ospedali del Sud Italia. L’Associazione provvede, qualora se ne faccia richiesta, anche all’inumazione di feti sotto le venti settimane. Il tutto nel rispetto della legge nazionale. L’iniziativa deve qui scontrarsi con un problema non da poco, il materiale dei contenitori. Quelli destinati ai feti al di sotto delle 20  settimane, infatti, sono in pvc, cioè non biodegradabili. Questo non ne consente la sepoltura, poiché non a norma di legge. Pertanto si ricorre all’inceneritore anche se i genitori fanno esplicita richiesta di inumazione. Qualcuno parla di prodotto abortivo e di embrione-non vita, considera quel feto espulso come un rifiuto da smaltire come l’indifferenziato, figlio di un dio minore insomma. Ma chi la pensa in modo diverso? Perché precludere a una donna che subisce il trauma di una perdita così grande, l’opportunità di un sepolcro su cui piangere?.