Economia 2.0. e le competenze mancanti

Amedeo Tesauro

In un periodo di crisi globale in cui la disoccupazione affligge tutti i paesi, è impressionante rilevare quanto emerge dal rapporto  “Professioni e Lavoro nel 21° secolo” del think tank, ovvero un’organizzazione che mira a proporre nuove politiche, Glocus. Il dato proposto è ampio, 900.000 posti di lavoro si creeranno entro il 2015, ma rimarranno vacanti per una mancanza di competenze. In altre parole, nessuno in grado di svolgere le mansioni necessarie. Qual è il settore di riferimento? Tutto ciò che rientra nella cosiddetta economia 2.0., quei settori che richiedono abilità specifiche in campo informatico, una preparazione a cui l’Europa, Italia in testa, non sa rispondere. Si parla di programmatori, tecnici informatici, esperti del web, e molte altre professioni che il nostro paese non è in grado di produrre. Del resto il rapporto rende noto che da noi l’economia 2.0 contribuisce al PIL per il 2%, laddove la media europea si attesta sul 4% e vi sono picchi del 7%. Nel computo rientrano, va chiarito, anche tutte quelle professioni “tradizionali” che devono essere aggiornate e migliorate, e ciò allarga la gravità delle mancanze. Se infatti il problema più ovvio è quello di giovani non pronti al mercato del lavoro, con una disoccupazione giovanile che tocca record su record ad ogni rilevazione, sussiste però anche un problema di competenza tra gli adulti. La differenza generazionale non si scopre oggi, i quarantenni hanno una familiarità con le nuove tecnologie ben diverse dai trentenni e dai ventenni, i quali, soprattutto questi ultimi, sono nati con certi strumenti e ovviamente li padroneggiano al meglio. Il rapporto sostiene dunque di intervenire su due fronti: da un lato riqualificare un’intera fascia generazione in età avanzata attraverso corsi di aggiornamento, dall’altra puntare forte sulla preparazione dei giovani cercando di risanare il cortocircuito università-lavoro che da troppo produce competenze non spendibili. Troppo facile, in merito a questo secondo ambito, sottolineare l’arretratezza della formazione italiana. I giovani italiani si ritrovano a confrontarsi con corsi di studio che non li preparano adeguatamente, e non si sta facendo riferimento solo alle facoltà informatiche, ma anche a richieste meno specifiche che dovrebbero essere ormai basilari in qualsiasi mestiere (perché, come detto, anche le professioni tradizionali sono profondamente scosse dalle rivoluzione digitale). In questo senso è imprescindibile la conoscenza di una lingua straniera ad un livello abbastanza alto da poter lavorare con essa, una prerogativa ovvia per gli studenti esteri ma non per quelli italiani. Altro punto dolente è il fronte della pratica: gli studenti italiani fanno pochissima esperienza sul campo durante la propria formazione, questo soprattutto per colpa del sistema italiano che non integra le associazioni professionali nei percorsi universitari. Il rapporto propone dunque una serie di miglioramenti da apportare all’intero sistema di preparazione al fine di arrivare pronti nei prossimi anni per coprire certe richieste del mercato, in momenti in cui la disoccupazione falcidia l’intera eurozona. Va ricordato, a proposito, che l’UE ha fissato specifici obbiettivi da realizzare nel decennio 2010-20, relativi proprio a colmare certe lacune sistemiche. Poco curiosamente, l’Italia non ha mantenuto nemmeno gli accordi presi con l’Agenda di Lisbona, da realizzare nel decennio 2000-10.